Illusions Perdues, la recensione | Venezia 78
Illusions Perdues si fa schiacciare dal peso del dover fare un adattamento, riuscendo giusto a inscenare bene una realtà storica ma senza proporre alcun tipo di visione personale.
Come aveva fatto nel divertente Marguerite, Xavier Giannoli con Illusions Perdues ritorna al film in costume ambientato tra i salotti intellettuali francesi, immergendosi ora nella Parigi della Restaurazione. Tratto dall’opera omonima di Honoré de Balzac, Illusions Perdues come il precedente parla della realtà della farsa sociale e della contraddizione tragica del voler fare un’arte “alta” quando non si ha la capacità di muoversi in un contesto sociale spietato (la nicchia aristoscratica e la sua controparte borghese). In Marguerite si trattava di una cantante lirica che non si rende conto di essere stonata e viene ingannata da tutti, qui di un giovane aspirante poeta che si immischia pericolosamente nel mondo del giornalismo commerciale corrotto perdendo di vista il suo desiderio iniziale.
Cosa ci voglia infatti dire del giovane Lucien Chardon (Benjamin Voisin), a parte la sua parabola evidente, non è chiaro. Lucien sembra un pupazzo in balia della vita, come un pupazzo è d’altronde Voisin che, come tutti gli altri attori (e ci riferiamo qui anche a Gerard Depardieu, Xavier Dolan, Cécile de France) non riesce a dare alcun tipo di intensità alla sua interpretazione.
Giannoli qui si fa invisibile, e nel momento in cui alla fine compare, scritta, l’idea balzachiana per cui bisogna “smettere di sperare e incominciare a vivere” ci si interroga su cosa voglia dire questa frase rispetto a ciò che si è visto. Non proprio un ottimo risultato.
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