Il Verdetto, la recensione

Con poca enfasi Il Verdetto mette in scena un giudice la cui vita privata sta crollando che nel caso cui lavora ovunque vede la sua vita privata

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
È un’associazione molto semplice e scontata quella che mette un giudice importante e stimato a doversi chiedere quali siano le decisioni più giuste, a doversi interrogare su quanto quel che le accade influenzi la sua idea di giustizia. Il Verdetto però fa in modo che questo dubbio non sia mai in primo piano, non sia mai dichiarato dal giudice Fiona Maye, ma che viva come il grande non detto di un film che lavora di immagini, recitazione e dialoghi per mettere in secondo piano il dilemma attorno a cui ruotano gli eventi. Tutto il film nasconde il suo vero tema per dargli più forza.

Fiona Maye, cioè Emma Thompson, esercita la giustizia per lavoro, si occupa di cause che coinvolgono i minori e si trova a decidere anche questioni di vita o di morte. A casa tutto precipita in una serata, quando il marito le spiega di volerla tradire prima ancora di farlo e gli spiega ragionevolmente le sue motivazioni. È un colpo duro che non accetta e su cui nemmeno vuole discutere. I giorni seguenti saranno purtroppo funestati da un caso complicato, un figlio di testimoni di Geova non vuole una trasfusione di sangue che lo salverebbe e bisogna capire se è in diritto di rifiutarsi o meno.

In questa prima metà c’è un meccanismo narrativo sottile fantastico innescato dalla collaborazione tra Ian McEwan (autore del romanzo d’origine ma anche sceneggiatore) e Emma Thompson. Tutto quel che accade al giudice in una maniera o nell’altra le ricorda la sua vita. Quel che viene detto, alcune parole usate, alcune accuse, alcune sentenze sembrano echeggiare ciò che è successo nella sua vita privata. Come se ovunque vedesse il suo privato. E Emma Thompson è fenomenale in questa recitazione a due livelli: fare qualcosa mentre comunica che il personaggio sta pensando ad altro. Dice qualcosa ma gli occhi tradiscono un altro pensiero di tutt’altra natura.

Anche visivamente l’alternarsi di proscenio e backstage (una porta la divide tra il suo posto in aula e il corridoio con gli uffici degli altri giudici, il boccione dell’acqua dove qualcuno racconta una barzelletta e il suo segretario) è potentissimo e da solo racconta di un lavoro eccezionale esercitato senza clamore, con l’ordinaria dedizione di una professione comune.

Lo sforzo della protagonista è quello di fare la cosa giusta in un caso complicato ma tutto andrà molto più in là del previsto finendo, nella seconda metà del film, per porre altre questioni ancora che rimarranno non solo insolute (come non stupirebbe) ma proprio inesplorate. Il Verdetto funziona purtroppo molto meno dopo la fine della causa, nonostante la trama avesse riservato per quella parte forse le svolte più succose. In quel momento sembra di capire come mai per dirigere sia stato scelto Richard Eyre (già dietro Diario di Uno Scandalo) e anche la buona prestazione, solo leggermente invasata, del ragazzo, Fionn Whitehead, perde un po’ di valore per le svolte che lo colpiscono.

Continua a leggere su BadTaste