Il Tuttofare, la recensione

Film d'esordio come regista di Valerio Attanasio, Il Tuttofare ha ritmo e umorismo indiavolati e un senso che esiste a prescindere dalle risate

Critico e giornalista cinematografico


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Non ci siamo più abituati ma la commedia, quella vera, non ha una trama pretestuosa, è un modo divertente e ironico di raccontare una storia che però mantiene un suo tono che può essere scanzonato come teso, spaventoso come eccitante. Insomma la storia conta realmente nelle commedie e deve funzionare indipendentemente dalle risate, il motivo per il quale non ci siamo più abituati è perché le commedie italiane (escluse quelle di altissimo profilo) nella maggior parte dei casi affermano il contrario: la storia è secondaria, è solo una maniera per unire situazioni divertenti. Non ci si spaventa davvero, non ci si commuove davvero, non si è tesi davvero nelle commedie italiane, non temiamo o speriamo per il protagonista, non desideriamo sapere come andrà a finire perché lo sappiamo già, tanto è tutto così tirato via in attesa del prossimo sketch.

Questo non è accaduto in Smetto Quando Voglio e non accade in Il Tuttofare perché i due film hanno il medesimo sceneggiatore, Valerio Attanasio. Nel film diretto da Sydney Sibilia (solo il primo) aveva scritto il soggetto e la sceneggiatura assieme al regista, qui invece il regista è lui, all’esordio. Il Tuttofare sembra un prequel spirituale di Smetto Quando Voglio o quantomeno una storia ambientata nel medesimo universo condiviso, non c’entra nulla ma i temi e il mondo dipinto sono esattamente quelli. C’è un praticante di un principe del foro il cui lavoro è fargli da schiavo (ha anche un angolo cucina nell’ufficio in cui spadella per lui piatti preparati a mano) e superato finalmente il concorso da avvocato spera in un inquadramento migliore. Verrà invece trascinato in un vortice di schiavismo al rialzo, sempre più clamoroso e paradossale, in cui finirà per rischiare la vita affondando le mani nel mondo malato del “lavoro professionale”.

Attraverso la storia di un Fantozzi moderno, Attanasio gira il proprio Fantozzi. Ispiratissimo dai primi film del ragioniere (diretti da Salce), specie per quanto riguarda la direzione degli attori, la vera caratteristica che illumina Il Tuttofare è un ritmo fuori da ogni canone per il cinema italiano. Sullo scheletro della buddy comedy, in cui un personaggio folle tormenta un altro più mite, Attanasio accumula tensione ed umorismo fino allo scoppio, riuscendo davvero a calare il pubblico nell’incubo comico del protagonista tramite una quantità di idee e trovate che sembra inesauribile. In questo film dalla densità eccezionale (spesso si accumulano nella scena idee di commedia verbale, visiva e di recitazione) la satira sociale non è mai in primo piano, non ci sono scene madri, il colpo ad effetto non è mai cercato (nonostante gli eventi clamorosi), l’obiettivo è semmai raccontare un mondo che nel suo complesso e nella sua totale assenza di correttezza parla da sé.

Ma anche al di là dell’intento satirico (e della capacità di saperlo incastrare in un film propriamente detto), Il Tuttofare è una commedia di finissimo artigianato che funziona come i migliori film drammatici.
All’interno della storia i personaggi ci sono presentati con schieramenti evidenti: i buoni e i cattivi. Tuttavia nel corso della storia lo sguardo che il film ha su di loro muta e spesso i ruoli si ribaltano. Attanasio ha la forza non comune di puntare il dito con fermezza, di saper indicare chiaramente cosa non vada, ma anche quella di comprendere e compatire la piccineria umana che guarda (e anche in questo sta molto del suo tono fantozziano). Così il povero praticante al pari dell’insolente e pretenziosa “studentessa” che gli viene imposta, lungo il film si svincolano dal loro personaggio e diventano persone. Addirittura anche il grande villain di Castellitto avrà un momento di misera compassione, uno in cui il mostro degli incubi di ogni precario diventa un essere umano.

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