Il truffatore di Tinder, la recensione
La storia di una truffa dalle proporzioni impressionanti è usata per raccontare il mondo femminile, i suoi bisogni, le sue insicurezze
Come si misura il documentario in stile Netlix, quello bigger than life in cui i fatti sono tra i meno plausibili immaginabili e lo svolgimento è una corsa all’accumulo di assurdità e follie? Quel tipo di documentario dalla cui storia sarebbe impensabile trarre un film di finzione perché è tutto troppo poco credibile per la fiction, tutto così assurdo e che solo un documentario con foto e video originali, con nomi veri e vere testimonianze delle persone coinvolte può essere accettato. Si valuta in base a quanto la sua storia ricalchi lo svolgimento dei racconti romanzati? In base a quanto esponga la stupidità umana o le debolezze umane? Per il valore iconico delle persone coinvolte? O ancora per il numero di volte che riesce ad evocare la domanda “ma come è stato possibile”?
Questo nuovo documentario dalla produttrice di Giù le mani dai gattini, è un viaggio nelle debolezze umane. Come già nell’altro non è la mente nera del colpevole ad affascinare ma la vulnerabilità di chi subisce, indaga e mette in moto gli eventi. Le donne vittime sono ritratti ordinari, borghesi e apparentemente non fragili. Come tutte le persone truffate è necessario un certo grado di creduloneria ma Il truffatore di Tinder cerca di superarlo, cerca di andare più a fondo e guardare e indagare tutti i meccanismi che scattano nella mente femminile e che rendono possibile la truffa. Cosa cercavano queste donne sole, cosa le ha convinte, su cosa facevano leva, che bisogno avevano da spingerle a credere così tanto in un uomo.
Così si valutano questi documentari: in base allo sguardo che poggiano sulle vittime e cosa questo ci dice su di loro.