Il segreto dei suoi occhi, la recensione

Poteva essere un buon remake e un'occasione per tracciare paralleli interessanti, invece Il Segreto dei suoi Occhi versione USA pare aver capito poco

Critico e giornalista cinematografico


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Contrariamente all’opinione comune, realizzare il remake di un film importante che viene da un altro paese, uno molto radicato nella politica e nella storia di quel paese là, è un’operazione interessante. Nel farlo infatti non si può fare a meno di tradurre tutto il portato sociale e politico nella storia e nella politica della seconda nazione, di fatto creando un ponte concettuale tra due contesti apparentemente separati.

Se il cinema serve anche a elaborare e fare in modo che una certa parte di storia sia digerita e (entro certi limiti) “riscritta” per diventare mitologia, tradizione comune e visione di mondo, allora che due paesi usino la medesima trama e la medesima storia per mettere in forma di racconto ognuno una parte della propria storia, è un’occasione incredibile per comprendere le similitudini tra questi fatti.

Purtroppo perché tutto questo si possa fare è indispensabile che i film siano riusciti, cioè che il racconto fatto da entrambi abbia una forza e una pregnanza quantomeno sufficienti a dare conto della complessità della realtà ritratta. Era così senza ombra di dubbio per Il segreto dei suoi occhi, versione argentina (di Juan Josè Campanella), e non è così per The secret in their eyes, versione statunitense (di Billy Ray, sceneggiatore sofisticato che occasionalmente passa dalla parte della regia). Il film con Nicole Kidman e Chiwetel Ejiofor infatti sbanda da tutte le parti con una sceneggiatura che non riesce a rendere fondamentali i passaggi più importanti e, per distaccarsi dal primo film, cambia quel che non ha senso che venga cambiato.

In barba al senso del titolo infatti viene molto smussata la parte relativa allo sguardo, viene cambiato il finale e un personaggio chiave (da uomo diventa donna, da conoscente diventa parte del corpo di polizia) e viene infine accorciato il lasso temporale in cui si svolge la trama (non 25 ma 10 anni) annullandone così il portato esistenziale. Addirittura anche l’affascinante figura del collega ubriacone ma infallibile (interpretata dal grande Francella) è smussata e annullata.

Ma anche volendo seguire solo la storia di The secret in their eyes senza badare al primo film, lo stesso si rimane stupefatti dalla scelta di lavorare unicamente sui visi, dimenticando i corpi, specie considerato che uno dei due volti è quello tumefatto di Nicole Kidman (intenzionata ad usare il film come veicolo per sè invece che come opera alla quale sottomettersi).

Scegliendo di giocare l’ambiguità della trama con le politiche antiterroistiche post 11 settembre (il killer non può essere incriminato perché è un informatore sulle cellule di Al Qaida interne agli USA), Billy Ray poteva effettivamente tracciare un parallelo tra ciò che è accaduto in Argentina (le dittature e la strategia della paura) e ciò che è accaduto e forse ancora accade in America, poteva insomma costruire un lungo ponte e comunque realizzare un buon film. Invece tutto crolla, anche lo stratagemma che porta avanti l’indagine, la riscoperta di dove sia o chi sia l’assassino è terribile. Insomma, un thriller che non convince, con poche cose da dire ed estremamente confuse, il remake americano di The secret in their eyes dà l’impressione di non aver capito quali fossero i punti di forza della storia originale, su cosa si reggeva il suo senso.

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