Il Ritorno di Mary Poppins, la recensione

Senza personalità e senza una vera protagonista, Il Ritorno di Mary Poppins riprende l'originale senza incidere mai

Critico e giornalista cinematografico


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I figli dei Banks sono cresciuti. Michael ha avuto a sua volta tre bambini la cui madre è morta e Jane, sua sorella, lo aiuta visto che nella grande crisi economica del ‘29 ne ha non poco bisogno. Forse anche per questo arriva di nuovo Mary Poppins, tirata giù dalle nuvole quasi come se ne era andata, con un aquilone. Il piglio è lo stesso, normativo e distante, amorevole senza smancerie, rigido ma capace di stimolare fantasia e divertimento.
La Disney stessa con Saving mr. Banks ci ha insegnato che la missione di Mary Poppins, nell’originale, non era di salvare i bambini ma di salvare mr. Banks dal gorgo in cui era finito ad opera della banca, ora invece in Il Ritorno di Mary Poppins il compito della protagonista è ben più evidente e meno pressante: la famiglia Banks è in piena crisi e lei viene a distrarre i bambini.

In questa differenza sta un po’ il cuore del cambiamento di un film che fa di tutto per somigliare all’originale, ne adotta la scansione delle scene (pressochè identica), il nemico bancario e le sequenze animate e di ballo, ma marginalizza Mary Poppins lasciando che la vera trama metta la famiglia Banks in lotta contro il tempo per non perdere la casa e ripagare il proprio debito alla banca.
Così mentre Michael sprofonda in un gorgo di disperazione i bambini viaggiano in mondi fantastici, assecondando uno spirito di puro vintage filmico. Musiche e balli come non si fanno più, che ricalcano stili passati, all’insegna del “come una volta”. Puro effetto nostalgia e niente di più. Anche Emily Blunt, solitamente incisiva, è impalpabile.

Mary Poppins questa volta è una spettatrice, non ha molte battute e questo è molto evidente quando arrivano: se ne sente la mancanza, si percepisce la sua figura a fianco del film e non alla sua testa. Se nell’originale infatti il suo essere di supporto alla famiglia era compensato da come illustrava i propri insegnamenti e il proprio mondo, qui non è supportato da niente. Mary Poppins arrivava a sparigliare le carte e sovvertire gli ordini di priorità, qui invece non c’è niente da sovvertire, ai bambini e agli adulti non viene insegnato praticamente nulla: non sarà il mondo non-sense ma in realtà molto marziale, preciso e pieno di senso del dovere di Mary Poppins a cambiare i cattivi in buoni (come nel primo) e il lieto fine dovrà essere conquistato semmai con l’azione.

Il risultato è un film estremamente moscio che dovrebbe essere ravvivato da numeri musicali e sequenze animate (molto buone) e che tuttavia pare fare di tutto per essere come gli altri, non distinguersi, non avere peculiarità.
E quel che distingueva l’originale era proprio la filosofia di Mary Poppins, tata magica e imprevedibile. Il modello di educazione che mette in chiaro ordine il piacere e il dovere, riuscendo a fare in modo che il primo sia trovato all’interno del secondo (nel farsi il bagno, nel trovare la strada di casa, nel riparare quel che si è rotto), è sempre il cuore delle scene musicali ma la filosofia di Mary Poppins non è più il centro di niente. I personaggi viaggiano in scenari fantastici, ballano in strada, improvvisano trovate fantastiche per il piacere di farlo, senza che ci sia niente a motivare queste avventure, a sostenerle e guidarle e la trama è sempre altrove, nella ricerca dei soldi per la banca.

A poco servono i mille cammei importanti che oscillano da quello inutilissimo di Meryl Streep (puro star power ad uso e consumo delle locandine) fino a quello piacione di Angela Lansbury. Solo un incredibile Dick Van Dyke, 93enne arzillo e ballerino, con il suo sorriso da palcoscenico statunitense di metà novecento mostra per pochi minuti il vero sapore del vintage.

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