Il ritorno di Casanova, la recensione

Un regista e un seduttore, entrambi in crisi, sono in Il ritorno di Casanova una maniera per parlare del passare del tempo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores in uscita il 30 marzo in sala

Com’è possibile che il film dentro il film sia meglio del film stesso? In Il ritorno di Casanova di Salvatores c’è un regista, chiamato Leo Bernardi, che ha realizzato e sta finendo di montare un film intitolato Il ritorno di Casanova. Lungo la sua storia vediamo diversi pezzi di questo film in costume (il cui protagonista, cioè Casanova, è interpretato da Fabrizio Bentivoglio) che a tratti ha un po’ quell’aria pittorica e il naturalismo gelido di Barry Lyndon e dall’altra ha un bel tema (che viene dal romanzo di Schnitzler anch’esso intitolato Il ritorno di Casanova): il terrore della vecchiaia e della fine di una vita passionale. Sono tutti temi che in teoria si trovano anche nelle vicende del regista Leo Bernardi ma non sono affrontati con la medesima decisa pregnanza della parte in costume. 

La differenza tra i due personaggi e le due storie, che poi sono una lo specchio dell’altra e che contengono i medesimi personaggi con i medesimi ruoli (come mostrano anche i titoli di coda), è che il Casanova interpretato da Bentivoglio è un uomo decadente che anela ad un’ultima emozione in una conquista (che è la sua professione), invece il regista di Servillo nella sua ricerca di qualcosa gira a vuoto, ripetendo sempre le medesime situazioni e quindi di fatto vivendo un dramma più astratto e irrisolto. Ci sono gli intrecci tra arte e vita, tra rappresentazione e autentica passione, tutto come si conviene ma forse anche per questo tutto molto più convenzionale, della più semplice (ma tremendamente efficace) ricerca di un ultimo fuoco per Casanova. E che roba quel duello nudi!

È chiaro che Salvatores pensi un po’ a Fellini e a Otto e mezzo, ci sono molte citazioni se non bastasse il tema in sé, ma guardare Il ritorno di Casanova mettendo da parte Fellini (anche perché il film se lo merita) vuol dire oscillare tra due modi di affrontare la vecchiaia, di Casanova e del regista, accomunati dal presagio della fine di tutto. Solo uno dei due però è davvero interessante e ogni volta che stacchiamo da quello per tornare al regista non è difficile sentire un po’ di frustrazione. L’unico scampolo di onestà che esce da Leo Bernardi lo vediamo quando esprime un profondo e autentico odio per i giovani come categoria destinata a soppiantarlo. Lì sì sente la voce di Salvatores che se ha diversi debiti per la trama (Schnitzler e Fellini) cerca di averne molti di meno per la messa in scena, trovando come sempre nel suo solito lavoro minuzioso sul sonoro, un espressionismo dei rumori che crea intorno al bianco e nero della realtà e al colore del film un’aria quasi onirica.

Infine, in un gioco di metacinema interno alla carriera di Servillo, è evidente fin da subito che il cuore di Il ritorno di Casanova, cioè la storia di Leo Bernardi e del film che sembra non voler finire ma anche della ragazza più giovane con la quale si sente vivo (Sara Serraiocco), abbia a che fare con il desiderio di identificare la vita con il proprio lavoro. È l’opposto della storia di un altro uomo avanti con gli anni e in crisi interpretato da Servillo, cioè Jep Gambardella. Qui si tira una linea dritta tra una vita piena e la possibilità di lavorare con entusiasmo, spostando la riflessione dall’interiore all’esteriore, non il rapporto con il mondo interiore ma proprio il rapporto con gli altri, l'esterno e il mondo. Tutto giusto, tutto interessante, tutto buono, ma nel film è solo accennato.

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