Il respiro della foresta, la recensione

Huaqing Jin non intende spiegarci il Buddhismo o dirci la sua sull’argomento. Tramite ciò che ci mostra capiamo che i principali motivi del suo interesse sono due: l’idea di disciplina e il concetto di morte, entrambi a partire dall’estrema normalizzazione di queste monache.

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La recensione di Il respiro della foresta, al cinema dal 22 maggio

Inverno 2017. Nel monastero Yarchen, sull’altopiano del Tibet, più di 10.000 donne praticano come monache buddhiste. Durante i 100 giorni più freddi, ogni anno vanno in ritiro spirituale in capanne provvisorie.

Comincia con queste brevi e concise informazioni Il respiro della foresta, un documentario scritto, diretto e montato da Huaqing Jin che mira a raccontare il lato più umano e difficile del monachesimo femminile buddhista. Si tratta di un documentario di pura osservazione: non c’è nessuna voce narrante, l’occhio del documentarista si mimetizza con l’ambiente, rivelandosi solo ogni tanto con qualche cartello informativo che segna il passare del tempo (si arriva fino al 2019) e che qua e là fornisce alcune spiegazioni.

Il respiro che trae il documentario da queste scelte narrative e stilistiche appare così piuttosto incerto, apparentemente guidato dal caso e dall’occasione (un cadavere mangiato dagli avvoltoi, un rimprovero a una monaca che non ha studiato, la pioggia che irrompe durante una pratica). Di qualità specificamente - ed evidentemente - cinematografica Il respiro della foresta non ha molto: la sua visione si avvicina molto a quella di un reportage antropologico che sicuramente soddisferà i più curiosi su questa realtà specifica ma che, per chi non è interessato all’argomento, potrebbe facilmente risultare macchinoso, difficile da comprendere se non “a fine percorso”.

Huaqing Jin infatti con il procedere del film, pur non dichiarandolo, rende chiaro che non intende farci vedere tutto, spiegarci il Buddhismo o dirci la sua sull’argomento. Tramite ciò che ci mostra - soltanto quello - capiamo che i principali motivi del suo interesse sono sostanzialmente due: l’idea di disciplina (che si lega a doppio filo con quella del sacrificio, date le condizioni di vita delle monache) e il concetto di morte, entrambi a partire dall’estrema normalizzazione di queste donne che mostrano continuamente di essere fallibili, talvolta distratte, a volte in lacrime per la frustrazione. Questa è la cosa in assoluto migliore del film, che continuamente mostra le monache che pregano, che svolgono le loro attività quotidiane e che vengono interrogate sulle materie spirituali dal guru (una presenza praticamente sempre in fuori campo). 

La disciplina buddhista ne viene in questo modo fuori come lontana dagli stereotipi occidentali: Il respiro della foresta ce lo fa capire bene - la disciplina è vera sofferenza, incertezza. Nessuna di queste monache, nemmeno le più anziane, ha la verità o la pace in tasca. Accettare questa incertezza, così come quella della morte, è l’unica via percorribile. Nonostante la paura addosso.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Il respiro della foresta? Scrivetelo nei commenti!

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