Il Re (prima stagione): la recensione

Il Re è una serie italiana ben fatta, e questo non è insolito. È però anche un'opera incredibilmente appassionante e impossibile da lasciare

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Spoiler Alert
La recensione della serie Il Re, disponibile da oggi su Sky e NOW.

Bisognerebbe parlare di più di Giuseppe Gagliardi. Il regista della trilogia 1992, 1993 e 1994, oltre che della prima stagione di Non uccidere, arriva con Il Re a delle vette di rigore assolute. Un prison drama all’italiana che fa quello che spesso non riesce anche a molte delle produzioni nostrane d'eccellenza: appassiona e tiene agganciati rendendo impossibile terminare una puntata senza iniziarne un’altra.

Il Re: impossibile staccarsi

Questo non vuol dire che non ci siano opere ben fatte nella serialità italiana. Anzi, spesso la televisione offre una messa in scena più curata rispetto alle produzioni per il cinema, osa di più, crea personaggi migliori. Però a fronte di un dovuto plauso generale non sempre corrisponde un equivalente interesse emotivo, spesso si fatica a entrare in quella logica da binge watching tutta americana secondo cui bisogna dare e frustrare in ugual misura, appagare, ma far venire voglia di vedere/sapere ancora di più. Lì falliva ad esempio Christian che, pur con ottimi valori produttivi, aveva ganci piuttosto deboli di puntata in puntata.

Insomma, attaccare allo schermo a prescindere da quello che accade e da come è mostrato non è semplice. Invece Gagliardi, insieme al team di sceneggiatori de Il Re (Stefano Bises e Peppe Fiore con Bernardo Pellegrini e Davide Serino), struttura l’enunciazione degli eventi tenendo sempre sulle spine andando a rivaleggiare in questo con la migliore della serialità italiana.

Basta pensare a come chiude magistralmente un episodio (non diciamo quale per non incorrere in spoiler). Un personaggio chiave apprende una notizia che lo riguarda e che lo sconvolge. Sappiamo che è capace di azioni violente, ma se questa volta si lasciasse trasportare dall’istinto sarebbero guai seri. Pare che abbia accettato la situazione, sembra in pace con se stesso mentre sosta in auto. È solo un’attimo, una percezione che viene subito fugata non appena capiamo che è in realtà posteggiato davanti alla casa del suo rivale. Scende dalla macchina. Sbatte la porta. Fine dell’episodio.

Un cliffhanger clamoroso, ma naturale, ben armonizzato con il resto. Perché l’episodio non viene usato per arrivare a quel punto strutturando l’intera trama per culminare con il botto. Piuttosto sembra che gli sceneggiatori abbiano scritto prima tutta la storia dall’inizio alla fine e poi abbiano deciso di tagliarla nei punti giusti, quelli più caldi e appassionanti. In questo modo Il Re scorre benissimo, e ogni interruzione è come un’ingiustizia. Un taglio che va ricomposto subito cliccando play sull’episodio seguente.

Scrittura e regia hanno la stessa visione del carcere

Diventa quasi secondaria la trama a questo punto, perché tutto può essere appassionante, basta saperlo enunciare con i giusti pesi. Dopo Ariaferma, il film di Leonardo di Costanzo ambientato in un carcere ottocentesco in dismissione, si torna a riflettere sulla prigione e tutto quello che avviene nella micro società che lì si crea. 

Luca Zingaretti è statuario nel ruolo di Bruno Testori, direttore del carcere San Michele che accoglie tra le sue sbarre tutti i peggiori. Criminali durissimi, assassini puniti con il fine pena mai, gente disperata che deve solo sopravvivere senza avere nemmeno un motivo per farlo. Testori tiene insieme questa polveriera a modo suo. Crea un sistema di regole interne che superano la legge dello stato. Lui è il re, circondato da pretoriani che lo proteggono e lo informano delle attività degli altri sudditi. Le guardie carcerarie sono con lui. Conoscono bene i pesi delle azioni e le misure da adottare per tenere l’equilibrio. Addirittura la valuta interna è la droga che viene concessa e regolata dal “governo” del direttore. Quando un duplice omicidio porta un indagine al San Michele il fuoco si avvicina pericolosamente alla polvere da sparo. Da quel luogo potrebbe nascere una minaccia per tutto l’Occidente.

Luca Zingaretti Il Re

Difetti trascurabili a fronte di una grande idea dell'ambiente

Non tutto è perfetto, qualche scena tradisce la solita ingenuità italiana nelle interpretazioni, ancora un filo di ritmo in più non avrebbe fatto male, ma sono piccolezze se si riconosce quanto l’ambizione produttiva venga pareggiata. Il Re usa tutte le sue risorse e dà il massimo con quello che ha a disposizione. Ottiene tutto quello che promette.

È sempre bello quando abbiamo il coraggio di mostrare il brutto. San Michele è un inferno non distante da quello (esageratissimo ed improbabile) visto in Cell Block 99 di S. Craig Zahler. Lì mentre si saliva di blocco in blocco fino ad arrivare alla massima sicurezza si incontrava una violenza sempre maggiore. Ne Il Re si fa invece esperienza di odori, di fango, sangue e sudore. La merda esplode dal basso, allaga le celle. I cadaveri marciscono all’aria aperta lasciati abbandonati per ore. La droga viene tagliata su dei lavandini sporchi e arrugginiti che non si vorrebbe toccare neanche per lavarsi le mani.

La luce brucia i fotogrammi, il buio segna le forme esterne del carcere che si impone come un castello sulla città. Quando usciamo da lì, per seguire la vita privata dei personaggi, sembra di prendere ossigeno. Un controllo per scoprire la recidiva di un tumore, una litigata furiosa, sono sempre meno opprimenti della prigione. Uno spazio da cui tutti vogliono scappare ma in cui “Il re” Testori cerca di rifugiarsi.

Tanti sguardi indiscreti, cimici, trojan, informatori, rendono il procedere delle indagini come l’osservazione metacinematografica dei personaggi che si rubano a vicenda le storie. Il Re è così una serie concretissima, dove l’attualità entra per dare peso a quello che accade. Con un Luca Zingaretti magistrale e inquietante, quella di Gagliardi è una sorpresa su tutti i fronti. Prende da tutto il meglio della serialità italiana e la porta ancora avanti senza dovere emulare modelli e atmosfere da altri. No, qui c’è solo la personalità degli autori che tracciano su linee già viste molte volte un disegno sorprendentemente originale.

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