Il re di Staten Island, la recensione
Con Il re di Staten Island Judd Apatow torna a parlare di adulti che maturano tardi, e con la scusa del racconto biografico forse si prende troppo sul serio
Ma Davidson non recita bene come Adam Sandler, e il film usa sì diverse caratteristiche del vero Davidson (anche nel film è traumatizzato dalla morte del padre, vive con la mamma e la sorella e ha lo stesso umorismo da SNL) ma viene cancellato il tema della stand-up comedy, sostituito nel film dal desiderio di Scott di diventare un tatuatore. Perdendosi allora tra le righe il riferimento alla realtà (impossibile da cogliere per i molti che non sanno chi sia Davidson) l’aspetto autobiografico perde motivo di esistere, e il film diventa pura fiction che intrattiene con la realtà qualche caratteristica comune.
Forse a rendere il film ancora più particolare rispetto ai suoi precedenti è un certo feeling da produzione indipendente, lontano dal solido tecnicismo da commedie prodotte da grandi Studios (quasi fosse una pasta stessa che le rende più nitide, da buon vecchio “stile invisibile”). Apatow qui usa volti poco noti e annacqua forse un po’ troppo il trauma del protagonista nei molti momenti in cui semplicemente veniamo a conoscere meglio i personaggi, arrivando al momento di maturazione finale di Scott con l’impressione di non averlo visto cambiare neanche troppo. Il film riesce comunque a coinvolgere grazie alla sua immersione totale nei problemi del piccolo gruppo familiare, ma la grandissima abilità comica di Apatow si perde qui un po’ troppo nella pretesa di commuovere: e forse era meglio quando non ci si prendeva troppo sul serio.