Il Pugile, la recensione

Abbiamo recensito per voi Il Pugile, graphic novel di Reinhard Kleist che racconta la vita di Harry Haft, sopravvissuto all'Olocausto grazie alla boxe

Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.


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Da qualche giorno, sugli scaffali e sui banchi delle vostre fumetterie, c'è un volume un po' più cattivo, un po' più difficile e un po' meno colorato degli altri che vi osserva con sospetto quando entrate. Non sorride granché e non vi corre incontro come fanno tanti altri, con le loro copertine entusiasmanti e i loro titoli seducenti. Se fosse una persona, sarebbe una di quelle un po' pensierose, che tendono a non farsi notare, che devi essere tu a cercare. Siamo qui per avvertirvi che è proprio il caso di cercarla, quella persona, di andare incontro voi a questo graphic novel targato BAO Publishing, di scoprire Reinhard Kleist e il suo Il Pugile.

Non ne trarranno un cinecomic, non avete mai sentito nominare il suo autore, non ci sono supereroi (né tantomeno eroi) tra le sue pagine e le sue vignette e neppure giri di parole, sorrisi, battute. Non ci sono metafore di nessun genere. C'è una storia, vera. Forse non è tutta intera, forse non è riportata con il cento percento della fedeltà, ma è una storia vera ed è una storia di Olocausto. La vita di Hertzko Haft, detto Harry quando si è trasferito negli Stati Uniti, è quella di un sopravvissuto e di un pugile, di un uomo scampato ad Auschwitz e divenuto atleta professionista di boxe negli anni quaranta, perché l'unica cosa che aveva imparato davvero a fare per sopravvivere, era lottare.

Il Pugile è una storia di ingiustizia, come tutte le storie sulla Shoa, ma è declinata in maniera più dura e più asciutta di quasi tutte quelle in cui ci siamo imbattuti da lettori o da spettatori di cinema. Non c'è nemmeno un'ombra di retorica nel tratto spigoloso e pesante di Kleist, che in vari momenti richiama e si dimostra assolutamente all'altezza delle atmosfere claustrofobiche del suo ovvio paragone: il Maus di Art Spiegleman. Ci troviamo invece, senza nessun giudizio morale né alcuna assoluzione vittimistica, tutto il disgusto per la non-vita dei campi di concentramento, tutto il disprezzo per la forza di quell'esperienza terribile e indicibile, che ha saputo spesso trasformare le persone in bestie, l'umanità in cieca volontà di sopravvivenza, la compassione in dolorosa indifferenza per la dignità. Un'indifferenza che non apparteneva solo ai carnefici, ma spesso anche alle vittime, costrette a scendere a compromessi con la parte più oscura del loro animo, pur di tornare a respirare, a vedere la luce, a vivere.

Siamo rimasti ammirati dalla capacità di Kleist di dipingere e narrare una vicenda in cui la speranza è sempre la stella polare del racconto, il motivo vero delle azioni di Haft, la ragione dietro ogni violenza, ogni colpo dato e ricevuto, ogni strato aggiunto al proprio cuore per indurirlo, per renderlo impermeabile alla paura e, spesso, anche alla pietà. La speranza di un amore, di un'esistenza normale. Descrivere in maniera sentita e tanto efficace un desiderio così umano, così normale, con cui tutti noi possiamo relazionarci, trovarlo e farlo emergere da una storia così dura e in qualche modo controversa e spietata con il suo protagonista, consegnarlo intatto al lettore in tutta la sua purezza senza renderlo un'assoluzione, senza farne il fine che giustifica i mezzi (a volte atroci, sempre discutibili) con cui Haft è riuscito a sopravvivere, non era assolutamente facile.

Eppure Reinhard Kleist, autore tedesco che sarà in Italia il 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, c'è riuscito. Tramite uno sguardo lucido e a suo modo freddo alla vicenda, terribilmente consapevole della materia che stava trattando. E soprattutto per mezzo di uno stile di disegno austero, che non cede mai alla spettacolarizzazione delle scene, che non si fa tentare dai richiami letterari e cinematografici, che sa essere espressionista senza mai esagerare, senza alzare troppo i toni. Uno stile di disegno e narrativo che non concede riscatto né catarsi, ma contemporaneamente non infierisce e non giudica. Il modo migliore, a nostro avviso, di nutrire la memoria e colpire tanto il cuore quanto la mente dei lettori. Ci è piaciuto molto Il Pugile e ci ha fatto male. Ci ha fatto venir voglia di sapere incassare meglio, di tenere più alta la guardia. Ci ha fatto sperare di non averne mai bisogno.

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