Il prodigio, la recensione
La storia di un'infermiera che si batte contro la superstizione religiosa prende la piega di una battaglia morale diversa, unica e filmica
La recensione di Il prodigio, il film disponibile su Netflix dal 17 novembre
Florence Pugh (sempre meno interessante, meno sorprendente e meno clamorosa) è un’infermiera chiamata a giudicare un possibile miracolo. Insieme con una suora deve darsi il cambio ogni 8 ore e tenere d’occhio una bambina che non mangia da 4 mesi senza conseguenze apparenti. Siamo nel 1860 durante la grande carestia irlandese, ma pare il West. Molti in loco vogliono il miracolo e l’infermiera è la donna di scienza che certificherà che tutto quel che sta accadendo è inspiegabile. Come è facile immaginare, invece, scoprirà dove sta l’arcano e questo genererà un conflitto ancora maggiore sul da farsi, perché le conseguenze di un necessario smascheramento sarebbero terribili. Come in un Anna dei miracoli disilluso, la scienza invece che salvare la bambina la può uccidere.
La trovata clamorosa è girare Il prodigio con l’armamentario dell’elevated horror (e Florence Pugh già era protagonista di uno dei film simbolo del genere, Midsommar), con quella fotografia (e anche alle volte quella composizione di immagini rarefatte con personaggi come isolati in ambienti inquietanti) e quello score. Il prodigio non mira a mettere paura, ma in questo modo trova l’essenza del cinema, riuscendo con le medesime immagini a dire due cose: non solo che quell’Irlanda vessata dalla carestia è un mondo in cui l’abiezione umana è a proprio agio, ma anche che il mondo che manipola le donne ha esattamente quell’aria da horror, è un mostro che genera ambienti spaventosi. Partirà una guerra per l’anima di una bambina in cui le fedi incrollabili (nella scienza e nella religione) diventano il vero villain e il percorso dell’eroina dice qualcosa di molto poco comune per il cinema americano (figuriamoci per il western!), cioè che pur avendo un’opinione forte l'unica scelta realmente morale è quella umana anche se richiede di saper prendere la forma del contenitore in cui si trova, come l'acqua, per arrivare al proprio scopo.