Il prodigio, la recensione

La storia di un'infermiera che si batte contro la superstizione religiosa prende la piega di una battaglia morale diversa, unica e filmica

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il prodigio, il film disponibile su Netflix dal 17 novembre

Che cinefilia prensile che anima Sebastian Lelio! Tutto quello che guarda sa assorbirlo in un attimo, capirlo a fondo e subito riutilizzarlo. Questo autore cileno che abbiamo conosciuto con Gloria (poi da lui rifatto in America) e che sempre di più sta entrando nell’industria mondiale del cinema (cioè quella americana), ha infatti una capacità rarissima di capire i generi, i trend del cinema. Qui, in un’accoppiata da sogno, lavora allo script con Alice Birch (il genio che ha adattato Normal People) e insieme trasformano in sceneggiatura il romanzo di Emma Donoghue. Una sceneggiatura fondata su dialoghi e parole, in cui confrontarsi è il modo per esprimere le idee del film e i personaggi sono ognuno portatore di una visione del mondo (e l’idea geniale è che la protagonista è diversa perché sa trascendere la propria posizione).

Florence Pugh (sempre meno interessante, meno sorprendente e meno clamorosa) è un’infermiera chiamata a giudicare un possibile miracolo. Insieme con una suora deve darsi il cambio ogni 8 ore e tenere d’occhio una bambina che non mangia da 4 mesi senza conseguenze apparenti. Siamo nel 1860 durante la grande carestia irlandese, ma pare il West. Molti in loco vogliono il miracolo e l’infermiera è la donna di scienza che certificherà che tutto quel che sta accadendo è inspiegabile. Come è facile immaginare, invece, scoprirà dove sta l’arcano e questo genererà un conflitto ancora maggiore sul da farsi, perché le conseguenze di un necessario smascheramento sarebbero terribili. Come in un Anna dei miracoli disilluso, la scienza invece che salvare la bambina la può uccidere.

Il prodigio è aperto e chiuso da una voce fuoricampo in un teatro di posa moderno e ci specifica da subito l’ovvio: ognuno in questa storia crede alle proprie storie con la massima devozione e così anche noi dobbiamo fare. Ognuno ha la propria narrazione degli eventi (che bravo Toby Jones, com’è ambiguo senza sottolinearlo troppo) e la vittima è sempre una donna (per tutti è più utile da morta, a prescindere dal loro obiettivo). Questa è una storia di uomini che gestiscono le donne (inclusa la protagonista) per i propri fini, ma più a fondo è anche una storia da West, di una comunità animata da uno spirito e di qualcuno che viene da fuori e vi si oppone, battendosi prima di tutto moralmente, per salvare qualcun altro. Fin qui l’eccezionale scrittura. Poi scende in campo la regia di Lelio.

La trovata clamorosa è girare Il prodigio con l’armamentario dell’elevated horror (e Florence Pugh già era protagonista di uno dei film simbolo del genere, Midsommar), con quella fotografia (e anche alle volte quella composizione di immagini rarefatte con personaggi come isolati in ambienti inquietanti) e quello score. Il prodigio non mira a mettere paura, ma in questo modo trova l’essenza del cinema, riuscendo con le medesime immagini a dire due cose: non solo che quell’Irlanda vessata dalla carestia è un mondo in cui l’abiezione umana è a proprio agio, ma anche che il mondo che manipola le donne ha esattamente quell’aria da horror, è un mostro che genera ambienti spaventosi. Partirà una guerra per l’anima di una bambina in cui le fedi incrollabili (nella scienza e nella religione) diventano il vero villain e il percorso dell’eroina dice qualcosa di molto poco comune per il cinema americano (figuriamoci per il western!), cioè che pur avendo un’opinione forte l'unica scelta realmente morale è quella umana anche se richiede di saper prendere la forma del contenitore in cui si trova, come l'acqua, per arrivare al proprio scopo.

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