Il processo ai Chicago 7, la recensione

La vera storia del processo ai Chicago 7 nella versione Sorkin diventa una storiella manichea che svilisce la complessità delle cose per mettersi dalla parte giusta

Critico e giornalista cinematografico


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Il processo ai Chicago 7, la recensione

È l’anno giusto in America per un film sui Chicago 7, l’anno delle elezioni, e Netflix non si fa sfuggire una storia di palese ingiustizia, di soppressione delle libertà civili in nome del mantenimento del consenso e del potere durante la presidenza più viturperata della storia americana, quella di Nixon.

Uno specchio abbastanza chiaro del prossimo Novembre.

C’è questo probabilmente dietro alla forza, la veemenza e l’impegno eccessivi profusi da Aaron Sorkin nel mettersi da quello che, sappiamo tutti, essere il lato giusto e fare di tutto per vincere facile. Il processo ai Chicago 7 afferma con impegno eccessivo il più condiviso dei principi (quello ad un giusto processo), affannandosi ad urlarne l’importanza come se fosse sul punto di essere cancellato. Nel frattempo il suo film lascia anche passare l’idea che tutto quel che di complesso, onesto e reale c’è in una storia vera possa essere calpestato per affermare la facile affermazione che porrà il suo autore sullo scranno dei giusti.

Il processo ai Chicago 7 è la storia del vero processo che subirono sette attivisti (più il capo delle Pantere Nere, ingiustamente coinvolto fino a che non fu palese che non aveva niente a che vedere con quella questione) per essere stati coinvolti in uno scontro con la polizia durante una manifestazione. Lo scontro, sarebbe poi stato dimostrato in appello, fu causato dalla polizia, ma il processo fu tutto tranne che equo. È palesemente una pagina nera, seguita da una bianca (perché in appello vinsero i 7), della storia americana che Sorkin piega, allarga, distorce e ingrandisce nei suoi veri esiti (e usando come si conviene gli atti dei processi come base), fino a farla diventare retorica.

A partire dal montaggio iniziale è subito chiaro che Il processo dei Chicago 7 è perfetto, Sorkin sembra più a suo agio in regia rispetto a Molly’s Game e sfoggia la sua nota abilità di far scorrere i dialoghi, ci presenta con un’economia di tempo invidiabile gli 8 imputati a tempo di musica. È già una versione resa affascinante e positiva dalla messa in scena di quello che erano e facevano. Indirizza subito la comprensione di cosa avviene e ribalta la logica: molti dei coinvolti non erano stinchi di santo ma anche quando insegnano come si fa una molotov appaiono come eroi. E il film non è nemmeno iniziato. Il resto sarà una costruzione meravigliosa sugli standard del cinema americano (personaggi come il loro avvocato, come il giudice o come quello in cui viene trasformato Rubin, sono parte della commedia americana da sempre) che parla ai convertiti dicendogli benissimo quel che adorano sentirsi dire per avere indietro il più facile degli applausi.

Già sceneggiatore di uno dei film di tribunale più noti dei nostri tempi (Codice D’Onore), Sorkin porta avanti quello schema e lo allarga. Riesce a dare ad ogni personaggio un momento chiave (e per farlo con così poco tempo per ognuno ci vuole davvero una capacità eccezionale di scrittura) e inserisce come specchio per le allodole del bianco nel nero e del nero nel bianco, della finta complessità. Un avvocato dell’accusa pieno di dubbi e un imputato inizialmente molto retto che si scopre più in difficoltà degli altri con i principi, dovrebbero far pensare che il film proponga una visione complessa delle cose. Ma non è così. Questa storia vera è raccontata come le storie inventate, con eroi e malvagi villain, scambiando il fatto che la visione del mondo di un film è sempre parziale (e per fortuna!) con il fatto che solo le favole hanno questo tipo di caratterizzazioni a tinte forti.

Certo, è evidente che tutto ciò non sia estraneo al cinema hollywoodiano, che ha una grandissima ed eccezionale tradizione di film manichei, unita ad una capacità imbattuta di fondere insieme la creazione di mondi di finzione in cui i personaggi sono archetipi narrativi con una efficace metafora della nostra vera realtà. Steven Spielberg è solo l’ultimo degli interpreti di questo cinema e quando le rotative del Washington Post in The Post fanno tremare un intero edificio mentre stampano “la verità”, si assiste ad un’idea scontata e retorica espressa però con un’immagine talmente eccezionale (e al culmine emotivo di un film perfetto che non confonde mai "chiaro" con "semplice") da venire sparata nell’empireo dei significati più complessi, capace di lavorare dentro ognuno a dirgli qualcosa di leggermente diverso a partire dalle sue convinzioni.

Il processo dei Chicago 7 non è questo, è la storia masticata, digerita e risputata (seppure con una maestria e grazia rare) per renderla più facile da comprendere. Solo che nel processo si sono perse idee e concetti importanti, figure storiche sono passate da controverse a eroiche e un sistema che non ha funzionato per problemi endemici è un singolo atto criminale di un numero ristretto di persone. Come si può davvero accettare di essere imboccati con scene come quella finale, in cui i cattivi urlano perché sono sconfitti e i buoni stanno a testa alta?

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