Il principe dimenticato, la recensione

A quasi dieci anni da The Artist, Michel Hazanavicius torna al cinema con Il principe dimenticato, un un coming of age divertente ma non proprio riuscito

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A quasi dieci anni di distanza dal clamoroso successo agli Oscar di The Artist, film muto che racconta gli anni Venti di Hollywood nel critico passaggio al sonoro attraverso la parabola di un divo decaduto, con Il principe dimenticato Michel Hazanavicius torna a giocare con grossi budget, a fare scommesse pericolose e soprattutto a voler parlare di cinema nel cinema, stavolta non ispirandosi alla storia stessa del mezzo (come anche in Il mio Godard, sull’iconico regista della Nouvelle Vague) ma conservando solo il desiderio di scombinare continuamente la grammatica del linguaggio filmico, che ora si mescola pericolosamente con quel genere difficilissimo che è il cinema per ragazzi.

Le premesse sono infatti quelle da racconto di formazione: Djibi (Omar Sy) è un padre vedovo che si occupa da solo della figlia Sofia (Sarah Gaye). Il momento più bello della giornata di entrambi è quando, prima di andare a letto, Djibi le racconta una favola di cui lui è il principe e lei la principessa da salvare. Ma le storie che racconta il padre – ed è soprattutto qui che si vede Hazanavicius – si trasformano in colorati e immaginifici set cinematografici, comprensivi di teatri di posa, camerini, uffici della produzione, abitati da buffi e stralunati personaggi, e da dove si innesta il racconto parallelo a quello della trama principale. Arrivata infatti alle medie Sofia cambia i suoi “film mentali” e Djibi deve fare i conti con un nuovo principe azzurro, una nuova star del set: Max (Néotis Ronzon), il compagno di scuola per cui Sofia ha una cotta. In un continuo altalenare tra la vicenda reale e quella del sogno, Djibi, grazie all’aiuto della nuova vicina di casa (Bérénice Bejo), dovrà fare i conti con le nuove esigenze della figlia, risolvendo al contempo i suoi problemi con il passato.

Se le aspirazioni sembrano essere quelle da grande racconto Pixar, il film scivola però sull’ingrediente essenziale, ovvero la mancanza di uno storytelling di ferro come quello di quei film d'animazione. Alternando realtà e mondo dei sogni, collegati soltanto per giustapposizione e non cercando neanche troppo di trovare un espediente che renda uno essenziale all’altro, il sogno si propone prima come metafora, poi come chiave di volta necessaria per la risoluzione dei conflitti dei protagonisti, confondendo continuamente lo spettatore sulla vera funzione di questo colorato set/luna park. L’obiettivo del film non è celato ma palese: dai giocattoli dimenticati di Toy Story  (che qui finiscono nell’”Oblimondo”) all’inconscio personificato di Inside Out, strizzando l’occhiolino anche ad altre recenti fortunate produzioni animate come Ralph Spacca Tutto, Il principe dimenticato sembra voler fare incetta di elementi che hanno portato fortuna al genere senza però saperli unire in modo innovativo.

Forse a stonare è proprio il focus sul personaggio dell’adulto e non su quello della figlia, che quasi passa in secondo piano: se nelle premesse il film poteva quindi essere un divertente coming of age a parti invertite, perdendo la premessa narrativa tra effetti speciali – di cui spesso si percepisce la volontà puramente mostrativa – e nella confusione tra realtà del film e film mentale, finita l’esaltazione per la pur brillante trovata iniziale si esaurisce anche l’inventiva registica, che non ha più controllo sulla storia.

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