Il Primo Uomo, la recensione

Traducendo in immagini il romanzo incompiuto di Albert Camus, Gianni Amelio racconta con stile elegante e struggente l'infanzia e quelle madri che lasciamo per diventare grandi...

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Uno scrittore famoso torna nel paese dove è cresciuto: l'Algeria. Il momento è teso: gli arabi musulmani vogliono che i francesi vadano via dalla regione africana che occupano dal 1830 avendovi trasferito in massa dei nativi d'oltralpe per permettere loro di mettere radici e considerarla ormai la loro casa.

Ora è il 1956. Mentre scoppiano le bombe lo scrittore famoso, contestato sia da chi vuole che i francesi restino sia da chi desidera che i francesi levino le tende, torna a trovare la madre tuffandosi nei ricordi d'infanzia: l'assenza di un padre morto nella Grande Guerra del '15-'18, la povertà (“Chi sono i poveri mamma?” “Noi”), la nonna severa, le prime bugie, lo zio scherzoso che gli insegna a fumare, il compagno di scuola arabo dallo sguardo diverso che lo chiama “femminuccia”, il maestro di scuola che vede per secondo la sua sensibilità artistica, il lavoro estivo, la prima bambina che gli sorride. Soprattutto sono la nonna e la mamma a regnare nei ricordi. La prima è una complice silenziosa delle piccole grandi avventure del piccolo. Perdente come lui, lo osserva curiosa e ammirata vedendo per prima la sua sensibilità artistica. La nonna, severa e sferzante (letteralmente: lo prende spesso a scudisciate con un nerbo), è invece un colosso facile al rimprovero. Soprattutto quando porta il nipote al cinema e questi non riesce a leggerle le didascalie dei film muti dopo che lei si è dimenticata gli occhiali a casa. Scena splendida.

C'era molta curiosità per il nuovo film di Gianni Amelio tratto dall'ultimo libro di Albert Camus, rimasto incompiuto. Il regista calabrese ha impiegato 5 lunghissimi anni per realizzare la sua nona regia, considerato anche il tv movie I ragazzi di Via Panisperna, filmando l'ultima fatica non finita dell'autore di Lo straniero, capolavoro esistenzialista che il soldato Jake Gyllenhall “Jarehead” legge irritando i superiori nel più dimenticato film di Sam Mendes e che Luchino Visconti tradusse in film nel 1967. La figlia di Camus diede alle stampe Il primo uomo nel 1995.

Com'è il film? Bello, leggero, episodico, profondo. Con una colonna sonora dai piccoli tocchi giocosi di Franco Piersanti e una fotografia illuminante di Luca Bigazzi. Il sommo regista di Il ladro di bambini e Lamerica, reduce da due cocenti “sconfitte” in Concorso a Venezia con Le chiavi di casa e La stella che non c'è, è forse in una fase della sua vita, comune a molti registi maturi come l'amato collega statunitense Terrence Malick, in cui vuole ricordare le prime immagini dell'infanzia. Lo fa attraverso il filtro dello scrittore finto, alter ego del vero Camus, Jacques Comery, il quale torna in Algeria per capire il chiasso della rivoluzione indipendentista del Fronte di Liberazione Nazionale algerino e i silenzi dello sguardo di una madre vecchia, bellissima ed analfabeta. “Ti piacerebbe se scrivessi un libro su di te?” le chiede sperando che lei così possa perdonare la sua necessaria fuga in Francia in cerca della fama letteraria. “Non so leggere” le risponde lei con spietata dolcezza. Prima, però, gli ha anche detto: “Se tu sei contento, a me basta”.

Le madri. Generose, forti, consapevoli dell'irrimediabile distacco. Potrebbe essere l'Algeria per Comery/Camus. Potrebbe essere la madre di ognuno di noi. Il film di Amelio racconta tutto questo attraverso quattro magnifici attori: il dolente Jacques Gamblin nei panni di Comery adulto (come dimenticarlo in Lassez-Paisser di Tavernier?), lo strabiliante Nino Jouglet come Comery bimbo, l'incisiva Maya Sansa come mamma giovane dell'infanzia del '25 e la struggente Catherine Sola mamma sola dell'Algeria turbolenta del '57. E' l'ultimo film di Gianni Amelio. Ma come per ogni grande artista, l'ultima opera è sempre un nuovo inizio.       

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