Il Primo Re, la recensione

Tarato su standard internazionali ma anche afflosciato da un tono troppo freddo, Il Primo Re è un'impresa mai vista prima

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un’idea grandissima, più grande del film stesso, alla base di Il Primo Re: raccontare il contrasto tra i due fratelli più noti della mitologia storica italiana in un mondo permeato da culti pagani forti e invisibili, intoccabili e privi di qualsiasi aura magica eppure incombenti, qualcosa che nessuno ha mai inserito nella loro storia e che invece, è subito evidente, è perfetto per raccontarla. Il film di Matteo Rovere ha l’ottima idea di non prendere posizione sul sovrannaturale, di non mostrarlo né affermarne la presenza, non gli interessa proprio. Quel che gli interessa semmai è farci sentire come questa credenza esista intorno ai personaggi che ci credono, come li condizioni e condizioni le vite dei protagonisti loro malgrado, e in questo è incredibile il lavoro del direttore della fotografia Daniele Ciprì, capace di creare a furia di luci naturali un'atmosfera irreale eppure gretta e terrosa, terrena e mitologica.

È incredibile il lavoro del direttore della fotografia Daniele CiprìRomolo e Remo farebbero di tutto l’uno per l’altro, eppure uno è ossessionato dal favore degli dei e l’altro non crede nemmeno che esistano. Differenza da poco finchè sono pastori, ma cruciale nel momento in cui l’esondazione del Tevere travolge la loro vita, quasi li uccide e li porta così lontano che vengono fatti prigionieri, lottano per liberarsi e assieme ad altri ex-prigionieri in fuga creano una piccola tribù in cerca di un luogo dove stanziarsi e un capo per sopravvivere.

Questi sono i primi 20 minuti di Il Primo Re e sono una bomba dopo lo scoppio della quale il film si rilassa un po’, forse troppo, ma la cui eco si sente fino alla fine di una pellicola che fonda un immaginario che prima non esisteva unendone molti diversi. C’è lo spiritismo pervasivo di La Passione di Cristo (aiutato da una colonna sonora di Andrea Farri molto simile), c’è la furia degli elementi di The Revenant, la violenza brutale dell’uomo sull’uomo di Apocalypto e la passione per il look di Valhalla Rising (senza arrivare alle stesse punte estreme), tutto finalizzato verso una storia molto semplice di un fratello che ne protegge un altro in difficoltà mentre tutto il mondo complotta per dividerli perché “così vogliono gli dei”.

La conquista più grande del film è allora proprio il cercare di costruire una mitologia che sia suaLa conquista più grande del film è allora proprio il cercare di costruire una mitologia che sia sua, non quella del cinema peplum (che si svolge secoli dopo) né quella dell’uomo primitivo (secoli prima) ma una strana via di mezzo nelle paludi del Lazio, altro luogo le cui caratteristiche epiche sono tutte da fondare. Ed è un’epica sommessa, fatta di tantissimo dolore, sangue, ossa spaccate con clave e rabbia, fatta di tribù sparute e pochi uomini, scontri piccini in ambienti giganti, vicende ordinarie che però contano tantissimo, permeate di un’aura divina che forse nemmeno c’è, forse è solo il timore delle superstizioni. I momenti in cui il film si esalta sono proprio questi in cui il destino sembra a portata di mano e i personaggi compiono l'ultimo miglio con il loro ardore, come quando Remo, bisognoso di legittimazione, incontra il cervo più grande di tutta la foresta, un attimo in cui il film è perfetto.

Tuttavia se ogni singolo elemento del film è impeccabile e anzi stupisce per proprietà di linguaggio filmico in un genere che in Italia, semplicemente, non esiste, l’insieme non è altrettanto convincente. È soprattutto la maniera in cui interagiscono i due protagonisti, giustamente brutale, a non riuscire a raccontarci anche quel sentimento che invece è alla base del film (e che nelle prime scene è ben reso). Il Primo Re è tutto basato su un rapporto strettissimo tra fratelli di cui si parla molto ma che alla fine sentiamo poco.

E se all’inizio non è un problema, più la storia avanza più lo diventa, culminando in un finale che non ha nulla da raccogliere, cioè non ha un carico emotivo impostato lungo la storia da sublimare, e risulta piatto. Questo di certo non uccide una pellicola che i suoi meriti li guadagna soprattutto tecnicamente, ma le leva di certo molta potenza emotiva, afflosciandola lungo la seconda parte e facendola terminare con un ritmo più languido che eccitante, inevitabilmente sottotono visto quanto tutto quel che di buono ha messo sullo schermo faccia desiderare allo spettatore di amarla molto più di così.

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