Il potere del cane, la recensione | Venezia 78

La recensione di Il potere del cane, film di Jane Campion presentato a Venezia 78. Con Benedict Cumberbutch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons

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Il potere del cane - The Power of the Dog, la recensione | Venezia 78

È un film di prime volte, riscoperte e riaffermazioni Il potere del cane di Jane Campion. Non solo perché per la prima volta dopo dodici anni la regista neozelandese torna ad approcciarsi al lungometraggio (l’ultimo fu il meraviglioso Bright Star, nel 2009) ma perché, soprattutto, Jane Campion qui si fa riconoscere per come la ricordavamo e l’abbiamo amata, portando sul grande schermo una sua prima storia con protagonisti maschili, fatta a sua volta di primi sentimentiche ritornano e altrettanti traumi che riaffiorano.

Nel consueto bilico tra la letteratura e il cinema caro a Jane Campion, Il potere del cane riadatta il romanzo omonimo del 1967 di Thomas Savage. La storia è ambientata nel Montana degli anni Venti e ha per protagonisti due ricchi allevatori di bovini, Phil e George Burbank (Benedict Cumberbatch e Jesse Plemons). Si tratta di due fratelli agli antipodi, non solo nell’aspetto esteriore: mentre George è riservato ed impettito - un gentiluomo da salotto borghese - Phil è scontroso e irascibile, e nonostante sia altrettanto acculturato ama stare in mezzo al bestiame, ribadendo ad ogni occasione buona la superiorità dello stereotipo del maschio alfa. Quando però George sposa la vedova Rose (Kirsten Dunst) accogliendo nella dimora Burbank lei e suo figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), Phil mostra il suo lato omofobo e violento, tormentando lei in ogni modo e bullizzando lui perché lo considera una “femminuccia”.

Nonostante non raggiunga le vette poetiche ed emotive dei suoi film precedenti, qui Jane Campion non delude le aspettative. Con il suo consueto spirito contemplativo - attento a particolari, oggetti simbolici e intenzioni dello sguardo - sa riassumere un’intera vicenda in un’inquadratura con la precisione di chi ha rodato il suo stile, sa trasmetterti il disagio e la paura dei suoi protagonisti raccontandoli semplicemente attraverso i loro gesti.

Si tratta di un racconto tormentato sulla sessualità repressa di un cowboy, che intrecciando odio e desiderio si misura con l’eredità maschile (e maschilista) del racconto dell’entroterra americano. Non siamo propriamente nel territorio del western ma siamo dentro alle sue contraddizioni più scottanti. L’omosessualità latente del western classico è qui trasformata nella nevrosi di chi non riesce a fare pace con l’ideale antico della virilità. Lo sguardo della Campion si fa qui decisivo, delicato e insieme distaccato: forse per questo il melodramma è più diluito del solito, ma l’intenzione è chiarissima. Cumberbatch assume su di sé questo fardello, e anche se la sua fisionomia non richiama propriamente lo stereotipo che vuole raccontare, la sua interpretazione è semplicemente esatta in tutto.

Accompagnato da un’attenzione speciale al suono, che qui è narrativamente centrale (non solo per l’inquietante marcia di Radetzky fischiettata da Cumberbatch) e sorretto dalla colonna sonora di Jonny Greenwood, Il potere del cane aggiunge un importante tassello alla filmografia di una regista che della fragilità umana ha saputo fare un manifesto poetico.

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