Il Piccolo Yeti, la recensione

Il Piccolo Yeti rivede verso il basso quel che sappiamo dell'animazione e in particolare della DreamWorks Animation

Critico e giornalista cinematografico


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Il Piccolo Yeti, di Jill Coulton - la recensione

Da quando Jeffrey Katzenberg se n’è andato nel 2016 la Dreamworks Animation non è più la stessa. Da tempo portava avanti i suoi franchise, adattava altre proprietà intellettuali come Capitan Mutanda o tentava esperimenti come Trolls o Baby Boss (di buon incasso ma non propriamente dalle idee devastanti), nel 2018 invece non ha fatto uscire niente e nel 2019 oltre all’ultimo Dragon Trainer tira fuori questo Il Piccolo Yeti, un esperimento di conquista della Cina e di riduzione della complessità. Non certo ambizioso, costato poco ed effettivamente da poco.

Ambientato in una metropoli sul mare come può essere Shanghai o Hong Kong, il film racconta di ragazzi cinesi (che rispondono a “tipi” cinesi e non americani) che trovano uno yeti sul tetto. L’animale è braccato da una società che lo vuole imprigionare, i ragazzi invece lo vogliono liberare. È la trama di E.T. rimessa in scena un’altra volta ancora, in cui per giunta nemmeno la caratterizzazione della creatura è originale perché pesca ad ampie mani dal lavoro fatto su Sdentato in Dragon Trainer. L’unica idea semmai è quella di ribaltare il character design di Merida di Brave e avere un personaggio che le somiglia tantissimo ma in cui quegli stessi segni come i folti capelli di fuoco vogliono dire l’opposto (complice il fatto che lei deve essere quanto meno cinese possibile). Un film come lo avrebbe potuto fare la Disney nei primi anni 2000 quando era finita in crisi nera.

La protagonista è una ragazza, mentre un ragazzo coetaneo e uno più piccolo la assistono, ma lei è proprio caratterizzata nella maniera in cui fino a qualche anno fa erano caratterizzati i maschi mentre il suo coetaneo, che la accompagna malvolentieri, è caratterizzato come fino a qualche anno fa si caratterizzavano le donne, come Willie Scott di Indiana Jones e Il Tempio Maledetto, sempre a pensare a non sporcarsi, restio all’avventura, distrutto dall’assenza di modernità e incapace di vedere l’obiettivo della missione perché concentrato su se stesso e sulle cose più futili. L’unico dettaglio interessante infatti è come il genere di ogni personaggio sia terreno di negoziazione e ognuno non aspiri a quello che siamo abituati ad attribuirgli, ma cerchi armonia in quello che si ritrova.

Infine c’è lui, il piccolo Yeti. Nell’animazione cinese la figura della creatura è molto presente e quasi sempre è sia mostruoso che buono. Le creature di fantasia che affiancano i personaggi umani sono un elemento di grande successo e non stupisce che per questo film pan-cinese non ci abbiano voluto rinunciare. Stupisce di più invece che per farlo si sia messa da parte qualsiasi velleità di scrittura e regia, sia stata coinvolta una sceneggiatrice e regista dalla Pixar (Jill Coulton, già ideatrice di Monsters & Co) abbassando però il livello di tutto, ripetendo invece che creando, affiancando sequenze simpatiche senza che i rapporti causa effetto funzionino sempre (si ha spesso l’impressione che gli eventi accadano all’improvviso, come piccoli sketch). Insomma stupisce che si sia deciso di mettere l’obiettivo e il risultato di ogni scena davanti alla sua coerenza o costruzione, così da far funzionare comunque la storia pur svuotandola d’interesse.

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