Il peggior lavoro della mia vita, la recensione
Thomas Gilou non riesce quindi a trovare alcun equilibrio tra le parti, facendoci involontariamente ridere di ciò che è serio e lasciandoci indifferenti verso ciò che invece dovrebbe far ridere.
È talmente edulcorato, sorridente ed ingenuo Il peggior lavoro della mia vita che definirlo un “feel-good movie” è davvero il minimo. Non che di per sé sia sbagliato esserlo: questa commedia di Thomas Gilou su un galeotto che trova nella cura degli anziani la sua ragione di vita è, senza ombra di dubbio, volutamente rassicurante e leggera. Il vero problema di Il peggior lavoro della mia vita è invece quello della credibilità, poiché non riesce mai a trovare un modo convincente (o quanto meno chiaro e coerente) per conciliare la sua volontà di divertimento - demenziale e sempliciotta - con quella seria e moralizzante con cui insiste sul piano narrativo.
Di commedia sociale in teoria dovrebbe trattarsi, e gli ingredienti ci sarebbero anche. È però il modo in cui questi elementi vengono usati, buttati lì alla bell’e meglio, tra coincidenze e forzature ben poco divertenti e al limite dell’irrazionale (gli anziani non si sono mai chiesti in due anni perché non fanno passeggiate e a tutti sembra normale), che fanno sembrare Il peggior lavoro della mia vita più che altro una sitcom mancata (in tutti i sensi). A sketch banali ripetuti allo sfinimento e sempre uguali a sé stessi, seguono senza un ordine chiaro lunghe parti in cui la trama viene finalmente sviluppata, con esiti però decisamente confusionari - con, per esempio, la svolta centrale della storia che accade negli ultimi venti minuti.
Thomas Gilou non riesce quindi a trovare alcun equilibrio tra le parti, facendoci involontariamente ridere di ciò che è serio e lasciandoci indifferenti verso ciò che, invece, dovrebbe far ridere.
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