Il Peccato, la recensione
Michelangelo raccontato in meno di un anno della sua vita, Il Peccato centra perfettamente una rappresentazione veritiera ma è scritto e recitato in modi inspiegabilmente dozzinali
IL PECCATO, DI ANDREI KONCHALOVSKY - LA RECENSIONE
Chi l’avrebbe mai detto che Andrei Konchalovsky, due volte Leone d’Oro per la miglior regia, autore di A 30 secondi dalla morte e Tango & Cash, russo emigrato in America e ora regista di alto profilo europeo, sarebbe finito a girare un film che sembra scritto da uno degli sceneggiatori di Renzo Martinelli. Dei film del regista di Piazza delle 5 Lune o Barbarossa questo Il Peccato ha la temibile letterarietà, la solennità delle interazioni, il fatto che il protagonista più che parlare declami e soprattutto il fatto che tutti conversino tra di loro scambiandosi notazioni storiche, come se interagissero con il senno di poi.
Tutto avviene poi in un contesto di rara cupezza, visivamente per nulla accattivante o convincente ma concettualmente impeccabile. Non c’è scena che non vanti nello sfondo atti piccoli o grandi di brutalità e violenza, e pure quando non c’è spargimento di sangue, ci sono abusi psicologici, noncuranza e disillusione. Sarebbe stato facile, vista la scrittura, scadere nel contrasto tra la nobiltà d’animo dell’artista e l’abisso dell’ambientazione ma per fortuna Il Peccato non ci cade, anzi Michelangelo è adeguatamente gretto, solo ogni tanto (e con una moderazione encomiabile) folgorato da un’intuizione, una visione di mani, volti o capelli e animato da una determinazione verso il risultato anche se pare assurdo. La sua ossessione per un masso gigante è una sineddoche bellissima oltre che un’epopea dello sforzo fisico terribile. Creare in questo film non è mai un processo poetico ma uno manuale, politico, economico fatto di attività che non hanno niente a che vedere con la nostra immagine dell’arte.
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