Il pataffio, la recensione

Sulla scia del medioevo di Brancaleone, Francesco Lagi gira un film slabbrato e deficitario proprio lì dove in passato aveva brillato

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il pataffio, in sala dal 18 agosto, presentato a Locarno 75

C’è subito qualcosa di familiare in Il pataffio, film tratto dall’omonimo racconto di Luigi Malerba: è la stessa atmosfera creata da Age e Scarpelli per il personaggio di Brancaleone (e gli zoom ad entrare e uscire richiamano vagamente lo stile di messa in scena dell’epoca), cioè un medioevo italiano cialtrone e straccione, fatto di abiti laceri, animali stanchi, vanagloria, natura selvaggia, capigliature eccentriche e soprattutto di una lingua tutta sua. La storia non è però quella di un condottiero da 4 soldi ma di un nobile da 4 soldi, un poveraccio diventato signore sposando una nobile, che gli ha fruttato un titolo mai sentito e un castello in rovina in una terra in cui non cresce niente, abitata da villani così miseri da non aver nemmeno troppo timore dell’autorità.

Dopo un film di incredibile sensibilità come Quasi Natale, Francesco Lagi torna alla commedia (con cui aveva iniziato) ma la verve è ai minimi storici. Il pataffio è un film nel quale la scrittura è slabbrata, diradata e priva di conflitti, tensioni e tutto ciò che anima una storia. Uno in cui gli eventi si susseguono non tanto seguendo un filo logico (che c’è ma è blando) quanto assecondando l’importanza degli attori coinvolti. I personaggi interagiscono tra di loro non perché abbiano bisogno di farlo con quelle persone nello specifico ma perché sono interpretati da attori di primo piano e quindi vengono coinvolti. I rapporti che stringono (eccetto quelli che esistono prima che il film inizi) sono tutti scarsamente motivati e di importanza spesso nulla.

Non aiuta il fatto che Il pataffio sia molto disomogeneo nella recitazione (come mai Alessandro Gassman è l’unico a stare su un altro registro rispetto agli altri?) e molto innocuo per non dire blando nella messa in scena. Come è possibile con questi standard prendere sul serio le paturnie protofemministe della marcontessa sessualmente insoddisfatta che sogna un Tristano? E tutto ciò è tanto strano quanto si tratta dell’esatto opposto di Quasi Natale, che proprio lì, nei toni delle immagini e nella recitazione, aveva i suoi punti di forza. In questo modo anche l’unico dettaglio significativo del film va perduto, cioè la sua lingua (presa per l’appunto dal libro di Malerba): un italiano tra l’ignorante, il burocratese e il fintamente ricercato che viene utilizzato come arma per dominare o come orpello per darsi arie.

Più che divertirsi a prendere in giro l’ipercorrettismo delle classi medie inferiori, come facevano spesso Age e Scarpelli (che proprio dall’uso di certi termini e dall’ignoranza dei registri traevano spesso la loro satira di costume) questo film lavora sulla parola come strumento di oppressione ed elemento rivelatore di ideologie. Siamo nel medioevo e quindi il nobile è un tiranno dei poveri, uno che prima era anch’egli poveraccio e ora non vede l’ora di godere del nuovo status, ma i poveri si alleano in una specie di prefigurazione della coscienza di classe contro il potere. Purtroppo però in Il pataffio accade quel che spesso succede quando si applicano oggi schemi ed ideologie di altri anni (il libro è del 1978 e Malerba è nato nel 1927). I mutamenti sociali e politici attribuiscono nuovi significati a vecchie dinamiche e così quella che senza dubbio nasceva per essere un’appassionata ode della volontà popolare e dell’aggregazione degli umili contro i forti, quasi rivoluzionaria, oggi sembra un maldestro inno all’antielitarismo e alla democrazia diretta come mezzo per prendere qualsiasi decisione.

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