Il nido dello storno, la recensione

Il nido dello storno è un film genuino, intelligente, che attraverso la forza di una storia ben raccontata riesce ad emozionare e a dire anche qualcosa di più.

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Il nido dello storno, la recensione

A volte la vita delle persone è colpita da un male irrazionale e insensato. Un evento improvviso che arriva e sconvolge tutto, spingendo chi lo subisce a trovarvi una qualche giustificazione: anche a costo di addossarsi una colpa che non si ha. Questo male è, ne Il nido dello storno, la morte in culla della figlia di Lilly (Melissa McCarthy) e Jack (Chris O’Dowd). Si tratta di un punto di non ritorno che spinge Jack in un istituto psichiatrico e Lilly a una tragica apatia, a vivere in solitudine senza la forza di chiedere aiuto. Ma si tratta anche, parallelamente, del male fisico che uno storno fa a Lilly nel suo giardino, aggredendola ogni volta che si reca nel suo orto. Perché lo fa? È una questione personale o è la misteriosa legge della natura?

Tutto questo orizzonte emotivo e tematico è un bel fardello da mettere sullo schermo, soprattutto se si decide di adottare un tono piuttosto leggero e di evitare facili pietismi. Ma quanto ci riescono bene lo sceneggiatore Matt Harris e il regista Theodore Melfi. Non solo ci riescono bene: lo fanno con eleganza, delicatezza, perché riescono a far parlare il film non attraverso grandi discorsi o palesi metafore ma semplicemente lavorando in profondità su ogni singola scena, ogni relazione umana, non lasciando al caso nessuno dei tanti dettagli che vengono pian piano seminati.

Sia che si tratti di singoli oggetti significativi - come un piccolo calzino, una merendina zuccherata, delle pillole azzurre - sia che si tratti di suggerire un’emozione attraverso gesti particolari - la foga con cui Lilly cancella l’impronta della culla dalla moquette, sfregandola con un dito -, Theodore Melfi sa esattamente quanto e come proporli senza risultare banale. Il suo vocabolario visivo è dosato, minimo (due silhouettes che ritornano sono l’unico eccesso che si concede per denunciare la sua presenza) ma è esattamente quanto gli basta per ottenere un film coerente e strutturalmente solido.

Il nido dello storno inizialmente sorprende per il rigore quasi scolastico con cui presenta situazioni, personaggi, temi. Uno stupore certamente positivo, ma che viene a sua volta piacevolmente disatteso quando il film cambia, nella parte centrale, per darsi tutto il tempo che gli serve per riflettere, approfondire. È come se il film si fermasse e proponesse di osservare invece che discutere. L’effetto inizialmente confonde ma poi se ne comprende l’intelligenza narrativa: è il messaggio stesso che vuole dare. Bisogna darsi tempo, essere gentili con sé stessi. Accogliere il dolore (emotivo e fisico). Solo in questo modo si potrà cominciare a cambiare.

Disattende le aspettative, in questo senso, anche il personaggio del veterinario/ex-psicologo interpretato da Kevin Kline. Un personaggio sicuramente centrale per il percorso di Lilly - e quindi per il film - ma che viene un po’ trascurato verso la fine. Forse questa scelta rientra nella sopracitata volontà del film di rifiutare una struttura tradizionale; forse, invece è una mera disattenzione. Per il resto però Il nido dello storno è un film genuino, intelligente, che attraverso la forza di una storia ben raccontata riesce ad emozionare e a dire anche qualcosa di più.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Il nido dello storno? Scrivetelo nei commenti!

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