Il nemico, la recensione

Tanto ambizioso quanto fuori fuoco, Il nemico di Garth Davis delude sia come fantascienza sia come studio romantico di una coppia in crisi

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La recensione di Il nemico, il nuovo film diretto da Garth Davis, in streaming su Prime dal 5 gennaio

2065. Il pianeta Terra è un posto sempre più inospitale e i governi tirano a sorte fra la popolazione gli operai da mandare nello spazio a lavorare nei nuovi insediamenti coloniali. In un imprecisato Midwest americano la vita di Henrietta (Saoirse Ronan) e Junior (Paul Mescal) è sconvolta dall’arrivo di un agente governativo (Aaron Pierre) che li avverte dell’avvenuto sorteggio: Junior dovrà partire e al suo posto verrà lasciata una “copia biologica” identica a lui per rendere più sopportabile l’attesa.

Nonostante la premessa ricordi Blade Runner, fra replicanti e colonie extramondo, Il nemico di Garth Davis non ha le preoccupazioni del cinema di fantascienza. Questo è un problema, perchè praticamente tutto ciò che contiene di interessante riguarda la visualizzazione di un’America futura arida e post-apocalittica, con un’estetica polverosa simile a quella di Interstellar e un senso di malinconia e incertezza per il destino dell’umanità. A rendere il film frustrante, e alla lunga anche parecchio noioso, è l’impressione che tutto questo non sia altro che il pretesto per imbastire una trita allegoria sentimentale su una storia d’amore in crisi, come il pianeta inariditasi e bisognosa di rinnovamento.

L’idea non sarebbe per forza malvagia: un dramma di coppia rispecchiato e moltiplicato dal dramma storico di una civiltà al collasso, cavalcando quella linea fra concettuale, emotivo e politicamente accorto che ha fatto la fortuna di un regista come Alex Garland. Peccato che – mentre il world building appare superficiale e pretestuoso – la sceneggiatura di Davis e Iain Reid, autore del romanzo di partenza, sia totalmente incapace di costruire due umanità credibili e in grado di generare empatia. Gli attori ci provano, soprattutto Mescal, ma i personaggi sono talmente fuori fuoco e impalpabili che gli sforzi per animarli rischiano di ottenere l’effetto opposto e passare per overacting.

Insomma va bene la stilizzazione, va bene lo struggimento onirico, ma a un certo punto si inizia ad averne abbastanza dei segreti, dei non detti, dei pianti sotto la doccia, delle corse nei campi verso edifici in fiamme – tanto Tarkovskij e Malick sono lontanissimi - e si inizia ad aver voglia di saperne di più su questi due e sul loro rapporto. Da una parte quindi abbiamo un universo fantascientifico inerte, che non parla del presente/futuro con cui pure avrebbe tanti agganci (ecoansia? Impoverimento del Midwest? Relazioni di genere?); dall’altra uno studio di coppia che non funziona perchè troppo impegnato a darsi pose da allegoria universale per ricordarsi di lanciare qualunque appiglio allo spettatore, che rimane quindi col sospetto di aver visto soprattutto uno sfoggio di tecnica e ambizioni non supportate dai fatti.

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