Il Natale della discordia, la recensione

La storia di Natale più assurda e significativa dei nostri anni, quella di un uomo che è stato interdetto a vita dal fare addobbi

Critico e giornalista cinematografico


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Il Natale della discordia, la recensione

Un giorno mostreremo questo documentario ai nostri nipoti per spiegargli quali movimenti agitassero questi anni di mutamento tecnologico e di trasformazione della comunicazione politica. Lo faremo non tanto per la storia (davvero un high concept!) di un uomo che addobba la sua casa per Natale con una tale potenza da attirare migliaia di persone dagli altri stati per vederla, e che per fare di più l’anno dopo acquista una casa più grande in un altro quartiere finendo per inimicarsi così tanto il vicinato da andare in causa con loro, assumere dei vigilanti armati e scatenare una guerra in tribunale da decine di migliaia di dollari, ma lo faremo perché questa storia contiene tutti gli elementi sui quali valga la pena riflettere oggi. Ed è una storia così americana da ergersi subito a manifesto di un’era.

Becky Read, una delle (molte) produttrici del pazzesco documentario Three Identical Strangers, non lesina in espedienti di finzione, anzi. Filma addirittura i protagonisti nell’atto di ricostruire parte degli eventi che raccontano. Se parlano di un giorno in cui hanno aperto una lettera li vediamo mentre lo fanno, se parlano di sbirciare dalle finestre lo vediamo e via dicendo. Tutto girato oggi ovviamente per ricostruire. Un tentativo di fare più cinema che paradossalmente diventa solo più televisione e impallidisce rispetto al cinema che porta lui, Jeremy Morris, protagonista indiscusso che parla come se fosse un attore che recita e che da solo anima tutta la messa in scena che Becky Read mortifica con quelle messe in scena posticce.

Parte esilarante Il Natale della discordia, con un uomo che dice di ispirarsi a Chevy Chase in Un natale esplosivo (seriamente!) e inizia a preparare gli addobbi a ottobre e anche con le esagerazioni senza senso che ci si aspetta, ma sempre più la maniera in cui trasforma una passione in spettacolo, intrattenimento e business (a vedere i suoi addobbi che vengono dall’adiacente Canada) parla dello spirito americano, di quella maniera di intendere lo spettacolo, anche a livello domestico, e di un paese centrato sulla messa in scena.
Quando poi Morris, il protagonista, si mette dalla parte della vittima prendendo spunto da una lettera in cui gli viene detto che ciò che ha intenzione di fare nel nuovo quartiere è troppo per loro e che poi magari ci potrebbero anche essere persone non cristiane che potrebbero non gradire, quando ribalta la realtà accusando gli altri di aver discriminato il suo essere cristiano, allora capiamo di essere di fronte a una storia dei nostri tempi in cui un uomo è più veloce degli altri a mettersi nella casella della vittima per portare l'opinione pubblica dalla sua, anche se è palesemente lui il "cattivo".

Ma non finisce qui, il continuo ingrandirsi delle proporzioni di questo scontro tra una comunità che vuole un po’ di pace e un singolo che è determinato a imporre a tutti il suo evento da migliaia di visitatori, è sia la dinamica chiave del western (dove c’è sempre una comunità che fatica a prendere decisioni equilibrate perché affossata dalla mancanza della presenza dello Stato) che la contrapposizione fondamentale tra le due anime americane: il collettivismo del limitare le proprie azioni per non ledere gli altri e l’individualismo di una persona che pretende di essere libera di fare quel che vuole. Fino a dove arriva la libertà sancita dalla costituzione americana e fino a dove è lecito che arrivi? Quello che in questa storia viene fatto “a norma di legge” è impressionante. E la maniera in cui Morris parla, in cui manipola la realtà trasformandola in una versione in cui lui è sempre sotto attacco, vittima di “terroristi” o anche vittima di “giudici corrotti” quando non gli danno ragione, è lo specchio migliore del quadriennio americano 2016-2020 nel quale si svolge tutto.

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