Il muto di Gallura, la recensione I TFF 39
La forza de Il muto di Gallura sta nel modo in cui fonde realismo e leggenda, e nella regia di Matteo Fresi
Un trillo morriconiano apre Il muto di Gallura, un’introduzione ad un universo subito riconoscibile, ricollocato nel contesto sardo, tra monti, cave di pietra e il mare all’orizzonte, da cui si intravede l’irraggiungibile Corsica. E non sono solo le musiche, gli abiti dei protagonisti a richiamare la Trilogia del dollaro, ma soprattutto quell’idea di violenza, che, proseguendo negli anni, è divenuta mera routine e quasi grottesca, per come si giustiziano, senza problemi, anche donne e bambini, mentre tutti ormai restano indifferenti. La natura è predominante, ma resta placida e distaccata, mentre davanti a sé è l’uomo ad essere sola e unica causa del suo male. Un mondo cinico e crudele, reso dal film in tutta la sua efferatezza.
La regia di Fresi è notevole, diremmo quasi immersiva per come, ricorrendo a panoramiche circolari e lunghi movimenti di macchina, ci trasporta nell’universo del film, insieme alle musiche di Baldini Dubfiles, che attingono al repertorio di quel contesto, e la fotografia di Gherardo Gossi, giocata su colori accesi. Dettagli evocativi, inquadrature con inclinazione obliqua ci trasmettono un senso di degrado. Così anche la trama si basa sugli archetipi più riconoscibili, a partire da un eroe muto, apparentemente freddo e distaccato, e dall’amicizia virile che lui instaura con Pietro. Tutti i personaggi sono mossi, più che da emozioni, da pulsioni, forti e nette (l’onore, l’amore, la vendetta), così da diventare figure da tragedia classica. Questa dimensione è assunta fino in fondo dalla narrazione, tra momenti enfatici e lirici che aprono uno spiraglio nel loro destino desolato.