Il muto di Gallura, la recensione I TFF 39

La forza de Il muto di Gallura sta nel modo in cui fonde realismo e leggenda, e nella regia di Matteo Fresi

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Un’opera che porta con sé il marchio Fondazione Sardegna Film Commission, ma non è una celebrazione, quanto una visione cupa e violenta dei suoi paesaggi e delle sue terre, con un occhio al western leoniano e l’altro all’epica di Matteo Rovere. L’esordio alla regia di Matteo Fresi, unico titolo italiano in concorso al 39° Torino Film Festival, è ambientato nella metà del XIX secolo in Gallura, una regione della Sardegna insanguinata dall’ancestrale faida tra le famiglie Vasa e Mamia. Bastiano Tansu (Andrea Arcangeli), giovane sordomuto dalla nascita, dopo l’assassinio di suo fratello Michele si unisce a uno dei due capi fazione, Pietro Vasa (Marco Bullitta) mettendo al suo servizio la sua furia e la sua mira prodigiosa e diventando un temutissimo assassino.

Un trillo morriconiano apre Il muto di Gallura, un’introduzione ad un universo subito riconoscibile, ricollocato nel contesto sardo, tra monti, cave di pietra e il mare all’orizzonte, da cui si intravede l’irraggiungibile Corsica. E non sono solo le musiche, gli abiti dei protagonisti a richiamare la Trilogia del dollaro, ma soprattutto quell’idea di violenza, che, proseguendo negli anni, è divenuta mera routine e quasi grottesca, per come si giustiziano, senza problemi, anche donne e bambini, mentre tutti ormai restano indifferenti. La natura è predominante, ma resta placida e distaccata, mentre davanti a sé è l’uomo ad essere sola e unica causa del suo male. Un mondo cinico e crudele, reso dal film in tutta la sua efferatezza.

I cartelli ci informano che le vicende iniziano nel 1848, anno della Prima Guerra d’indipendenza italiana. Un momento di passaggio significativo, che porta la presenza dell’esercito dei Savoia sull’isola, ma la Gallura e i suoi abitanti sembrano ancora impermeabili all’arrivo della civiltà e il Re è un’entità distante. Il loro è un mondo arcaico e tribale, di canti e di riti, di codici immutabili, dove anche la religione cattolica non ha attecchito. Da questo emerge il secondo modello, ovvero Il Primo Re, nella costruzione di un mondo mitologico e allo stesso tempo fortemente ancorato alla terra. Le atmosfere magiche sono intrise di un sangue reso in tutta la sua crudezza.

La regia di Fresi è notevole, diremmo quasi immersiva per come, ricorrendo a panoramiche circolari e lunghi movimenti di macchina, ci trasporta nell’universo del film, insieme alle musiche di Baldini Dubfiles, che attingono al repertorio di quel contesto, e la fotografia di Gherardo Gossi, giocata su colori accesi. Dettagli evocativi, inquadrature con inclinazione obliqua ci trasmettono un senso di degrado. Così anche la trama si basa sugli archetipi più riconoscibili, a partire da un eroe muto, apparentemente freddo e distaccato, e dall’amicizia virile che lui instaura con Pietro. Tutti i personaggi sono mossi, più che da emozioni, da pulsioni, forti e nette (l’onore, l’amore, la vendetta), così da diventare figure da tragedia classica. Questa dimensione è assunta fino in fondo dalla narrazione, tra momenti enfatici e lirici che aprono uno spiraglio nel loro destino desolato.

Il muto di Gallura si ispira a fatti realmente accaduti divenuti col tempo leggenda. La forza del film sta proprio allora nel modo in cui, fondendo i modelli, riesce a stare nel mezzo tra le due dimensioni: crudo e realistico come solo la Storia umana, universale come solo i racconti che si elevano oltre il loro tempo.

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