Il mostro della cripta, la recensione | Locarno74

Una valanga di citazioni e di generi convivono infelicemente in Il mostro della cripta fino a che, ad un certo punto, qualcosa non cambia

Critico e giornalista cinematografico


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Il mostro della cripta, la recensione | Locarno74

Sulla carta Il mostro della cripta è tutto giusto. È ambientato negli anni ‘80 e flirta con il cinema teen horror americano di quegli anni, contemporaneamente ricalca molta tradizione di horror italiano anni ‘60 e primi ‘70, specialmente nel legame tra sesso, morte e mostruosità infine è fondato su qualcosa di molto raro per il nostro panorama: i cattivi sono la polizia. Nella pratica è un “film commission horror”, legatissimo al territorio (che poi è Bobbio! Fino ad oggi conosciuta per i film di Bellocchio), al suo racconto e alla sua illustrazione e celebrazione, in modo così smaccato da infastidire, almeno tanto quanto il continuo ricorso a citazioni di cinema più o meno classico senza che queste siano integrate ma più che altro appiccicate.

È un po’ il Manetti Bros touch (qui sono produttori e co-sceneggiatori) filtrato da Daniele Misischia, la maniera in cui molto spesso infarciscono i loro film di riferimenti ad un immaginario lontano che cercano di rendere vicino senza riuscire mai a fonderlo con naturalezza nel film. Qui ci sono tutte le citazioni già elencate con in più occasionali strizzate d’occhio all’horror americano anni ‘50 unito alle vecchine di paese, e poi entrano le katane e l’immaginario nipponico, unito infine alla Sentinella di Arthur Clarke. Tutto senza mai riuscire a dare l’idea di un mondo coerente in cui tutte queste soluzioni eterogenee per provenienza e ispirazione sembrino aver sempre convissuto, o che almeno parlino la stessa lingua del cinema. Il mostro della cripta è un patchwork in cui ogni pezza è chiaramente diversa dalle altre e di cui si vedono i giunti che la uniscono malamente alle altre.

E anche il suo atteggiamento fieramente a basso budget, con i suoi effetti speciali semplici e effetti visivi basilari, non è che paghi molto. Specialmente nel comparto della recitazione, il più fiacco assieme alle musiche, Il mostro della cripta è capace di massacrare quel poco di armonia di cui avrebbe così bisogno. Sarà evidente quando, verso metà, entra in gioco Lillo, il quale da solo, con il suo personaggio, la sua presenza e il suo ritmo, è capace di dare una spallata al genere e portarlo (come detto) verso la teen comedy anni ‘80. Solo a quel punto il film sembra trovare la sua dimensione ideale. Tutta quella cialtroneria, quella cioè che per esempio prevede che i cattivi parlino da soli raccontando quel che devono fare o hanno fatto mentre i protagonisti li spiano di nascosto, scavalla e inizia ad essere autoironia. Se non altro così c’è un tentativo di coinvolgere lo spettatore nelle risate e in una passeggiata scanzonata nel cinema amatoriale, ingenuo e scalcinato come quello che fanno i protagonisti.

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