Il mio grosso grasso matrimonio greco 3, la recensione

Faticando ad arrivare a un minutaggio accettabile Il mio grosso grasso matrimonio greco 3 rimesta negli stereotipi degli americani in viaggio

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il mio grosso grasso matrimonio greco 3, in uscita in sala il 12 ottobre

In molti, qui, potranno essere spiazzati dall’esistenza di Il mio grosso grasso matrimonio greco 3, perché probabilmente ignorano l’esistenza del primo sequel, Il mio grosso grasso matrimonio greco 2, uscito nel 2016, che tuttavia nonostante un successo non devastante dimostrò l’esistenza di un pubblico per un altro film ancora. Questo. Così una sequenza musicata sui titoli di testa riassume i film precedenti attraverso una serie di foto di famiglia, mettendo addosso quella tristezza che solo gli album di famiglia pieni di parenti morti possono mettere. Soprattutto quello che quei titoli di testa ricordano a chi aveva visto il primo sequel è quanto fosse dimenticabile e dimenticato. 

Tutto prepara alla domanda cruciale del terzo: "Quanto in basso si potrà andare stavolta?". L’ultimo dei titoli di testa non aiuta: questo film oltre a essere scritto da Nia Vardalos, la protagonista (come lo erano già i primi due), è anche diretto da lei che è alla sua seconda regia dopo una prima non proprio di successo nel 2009. Lo spunto è che la famiglia protagonista stavolta va in Grecia, quindi siamo dalle parti di Marigold Hotel, Mamma Mia e tutta quella serie di film in cui un gruppo di persone va in vacanza in un luogo che ne libera la vera essenza. Con in più l’aggravante che loro, gli americani, avranno molto da insegnare ai pastori greci.

C’è la figlia della coppia protagonista che deve risolvere alcuni blocchi sentimentali e personali, ci sono la protagonista e suo fratello per i quali il viaggio in Grecia è una maniera di soddisfare un desiderio del padre ormai morto, ci sono le zie e poi le persone che incontrano in loco, nel paesino isolano da cui viene la loro famiglia. Ognuno con una piccola storia che viene maltrattata dalla solita scrittura interessata più ad avere dei momenti di ballo, di affetto, di liberazione, che a dargli un senso. Nei primi anni 2000 la serie tv I Soprano aveva avuto la grande idea di far confrontare i suoi italoamericani con la vera Italia per fargli scoprire che quel mito che avevano è solo un mito, che italiani e italoamericani sono mondi diversi. In Italia quegli italoamericani erano quasi a disagio, nemmeno le ricette sono le stesse! Il mio grosso grasso matrimonio 3 è l’esatto opposto di questo, non sfida quello che pensiamo creando nuovi percorsi ma conferma mitologie e aspettative.

Soprattutto, come spesso avviene in questo tipo di film sulle radici di seconde o terze generazioni di immigrati in America, questi vengono descritti tutti nella stessa maniera, là dove il film invece vorrebbe celebrare una specifica provenienza. Cambiando solo le pietanze che portano in giro nei tupperware il film potrebbe parlare di italoamericani, israeloamericani o simili. Stessi stereotipi, stessa maniera di guardare alle loro origini, stessi contrasti e stessi conflitti. Come il fatto che a un certo punto, quando subentra una gran fatica ad arrivare a un minutaggio accettabile (il film dura 90 minuti), tutto si riempia di montaggi musicali e qualcuno dovrà sposare qualcun altro.

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