Il mio corpo vi seppellirà, la recensione

Con molta voglia di fare cinema fumettoso, grafico, violento ed eccitante Il mio corpo vi seppellirà riprende idee e stili italiani filtrati da Tarantino

Critico e giornalista cinematografico


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Il mio corpo vi seppellirà, la recensione

Con questo titolaccio a metà tra exploitation e western classico (Il mio corpo ti scalderà, che in originale aveva tutt’altro titolo, è il referente diretto) Cinemaundici di Olivia e Luigi Musini e Ascent di Matteo Rovere e Andrea Paris realizzano il primo western italiano da decenni a questa parte, uno postmoderno che piega tutta la sua ambientazione risorgimentale ad una fantastoria fumettosa. Ed è più opportuno che mai citare prima i produttori, non per demerito di Giovanni La Parola, che il film lo dirige, monta e co-sceneggia con Alessia Lepore, ma perché l’esistenza stessa di questo film e i suoi valori produttivi vanno salutati come un traguardo prima ancora di iniziare a discutere come sia.

Southern sporchissimo, con un'enafsi pazzesca sugli aspetti da west del sud degli Stati Uniti, quello con messicani e non con gli indiani, Il mio corpo vi seppellirà è in realtà una storia di resistenza ai soprusi, di briganti siculi negli anni della lotta al brigantaggio dei piemontesi. L’unità d’Italia arriva con un volo d’uccello iniziale su navi che cannoneggiano le coste arse siciliane, torri in fiamme e gente vessata. Un colonnello dell’esercito italiano, che più che altro è sabaudo, impone la legge durissima del nuovo re, chi non si vuole adeguare muore, pochi scappano, molti si vendono. Un gruppo di donne che con ordinaria violenza sono state disprezzate, mutilate, vendute, manipolate, ingannate e violentate dagli uomini (come tutte le altre del resto), si è ribellato, armato e ora non intende cedere terreno ai piemontesi. Preferiscono massacrarli.

È una trama di vendetta femminile (ma anche regionale) perfetta per Quentin Tarantino e La Parola esattamente quello ha in mente (c'è anche lo sparo che fa schizzare via chi lo subisce di Django Unchained). Il suo film cerca tantissimo i riferimenti al cinema di genere italiano anni ‘60 e ‘70 con il character design dei personaggi, con qualche zoommetto moderatamente a schiaffo, con le pose e le inquadrature (più raramente con il montaggio), e quel che trova in realtà sono più che altro quei riferimenti passati attraverso il cinema di Tarantino, da lui digeriti e risputati e quindi sporchi di molto altro (come l’enfasi del cinema di kung fu, le teste mozzate e le storie in flashback). Margareth Madè con cappellone a tesa larga, cappotto lungo e benda sull’occhio è l’esempio più chiaro.
E sempre come Leone rivomitato da Tarantino, La Parola è capace di infilare tra una pistola puntata e il suo sparo, un flashback di 6 minuti che dia valore, senso e rivendicazione a quello sparo.

Non ci sono ideologie complesse o politiche nel senso moderno del termine, ma anzi ad essere sfruttate sono le più basilari, l’idea del debole che vuole liberarsi dal giogo del forte con una violenza la cui scala è proporzionata alle umiliazioni subite per anni. La differenza con il cinema italiano dell’epoca qui sta nel fatto che la ribellione degli oppressi, anche da noi molto raccontata, era vista come qualcosa di collettivo (come in Vamos a matar companeros) qui invece, come nel cinema americano, è vista per sineddoche individualista, è la ribellione di alcuni che simboleggia quella di tutti gli altri.
Giusto dal punto di vista registico, il problema del film sta nella scrittura (che invece in Tarantino è tutto) incapace di tenere il passo con il ritmo del resto del film e un po’ troppo dilatata per il genere cui appartiene e le ambizioni di grande intrattenimento. E d'intrattenimento è la grande sparatoria finale, impeccabile, una bella dimostrazione di come in questo film la parte tecnica sia la migliore (escluso l’inspiegabile fuoco digitale fatto male). Tutti i comparti sono esaltati e anche gli attori hanno modo di lavorare fumettisticamente sui dialetti e l’uso del corpo come da noi non capita mai, aiutati da una violenza grafica opportunamente esagerata.

Se quindi non tutto è a fuoco e manca un po’ di quella decisione verso la meta tipica del genere, per una volta ci si sente sciocchi a farlo notare. Ci sono pochi dubbi sul fatto che se la produzione non fosse stata italiana ma spagnola o francese sarebbe stato più facile goderne senza pensieri, trascurando i difetti e concentrandosi sul divertimento. Il fatto che sia “nostro” è inevitabilmente un onere che pesa e rende ogni dettaglio cruciale e macroscopico.

Invece il vero merito di un film come Il mio corpo vi seppellirà è di rimettere in circolo un’estetica e una mitologia, di mostrare come si faccia questo cinema, di reinventare luoghi e lingua italiana. E di fare tutto questo bene!! Specie considerato i molti altri tentativi di cinema di genere italiani terribili e frustranti che vediamo. Il resto è secondario anche il fatto che il risultato sia molto lontano dall’essere originale. Film come questo con un regista al secondo film, attori poco usati (a parte Antonia Truppo e Guido Caprino, comunque ben sfruttati) importa farli, farne possibilmente parecchi e farli girare.

Specie con la sequenza finale che si ritrova, che mette tutte le carte sul tavolo, va all in con lo splatter e l’esaltazione e chiude la storia con la fanfara. Avercene!

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