Il mio amico robot, la recensione

Film truffa, pensato per scatenare sentimenti a orologeria, Il mio amico robot in realtà ruba tutto quel che può, inventa poco e ricatta molto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il mio amico robot, il film animato di Pablo Berger in sala dal 4 aprile

Sarà tutto chiaro alla fine, sarà cioè evidente perché Il mio amico robot racconti la storia di un cane antropomorfo e di un robot da lui acquistato e assemblato per essere un suo compagno, anzi un suo amico, e poi per un errore lasciato un anno sulla spiaggia (dopo averlo lasciato solo pochi minuti lì, al ritorno la spiaggia viene chiusa fino all’anno successivo, non è chiaro però perché, se ci tiene tanto, non possa passare dal mare). Il vero argomento di cui Pablo Berger vuole parlare tuttavia lo si capirà nelle ultime scene, potendo così rileggere il resto del film alla luce di una grande morale che mette l’ultimo pezzo su una torre di dolcezze e sentimenti piccoli e teneri difficile da sostenere.

Per arrivare al punto ci vorranno un po’ meno di due ore di smielate delicatezze senza dialoghi (i danni che ha fatto Sylvain Chomet…), ambientate a Manhattan più o meno negli anni ‘80 senza nessuna apparente ragione, piene di quadretti dolciamari accattivanti pensati per fare appello alla nostalgia di una vita con ritmi più compassati, fatta di fogli di carta, piccoli piaceri da Amelie Poulain, hobby domenicali con la radio accesa e le finestre aperte, audiocassette, mezzi pubblici, rigattieri, conoscenze di quartiere e tutta una lunga lista di dettagli su cui il film centra la sua visione nostalgica di un universo finzionale pensato per evocare ed esaltare il passato di chiunque.

Ma è tutta una truffa. È nostalgia evocata senza sapere poi cosa farci. Il mio amico robot costruisce un rapporto idilliaco tra il cane protagonista e il suo robot, solamente per poterlo poi frustrare con la lontananza, non è davvero un racconto di quel sentimento lì (l’unione, la comunione, l’amicizia, le anime affini…) ma un racconto di mancanze e distanze che tuttavia è il film a creare proprio con quel fine in testa. Tutto infarcito di musica che presta il fianco di volta in volta al sentimento che va strappato a forza dagli spettatori senza troppi complimenti.

La realtà però è che questo è un film dal character design terribile, in cui tutto è la versione peggiore di qualcos’altro, dal mondo di animali di Bojack Horseman al robot protagonista (che ha la testa del Gigante di ferro sul corpo di Bender di Futurama) fino ad altri comprimari (il robot giallo sembra Calculon di Tutti i miei circuiti, sempre tratto da Futurama), ed è solo fintamente audace nel suo non avere i dialoghi, perché non è che funzioni granchè di immagini. Berger non racconta molto, l’intreccio è elementare, il grosso del film sono i suoi momenti di stasi e attesa, la descrizione delle terse giornate passate a far nulla o la visione di una persona cara dalla finestra. Ma quanta boria per quanta poca sostanza!

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