Il mio amico in fondo al mare, la recensione

Il documentario vincitore del premio Oscar Il mio amico in fondo al mare, fa il lavoro minimo possibile sulla finzione e pretende invece la massima adesione

Critico e giornalista cinematografico


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Il mio amico in fondo al mare, la recensione

Il documentario ha smesso da anni di pretendere di essere reale e raccontare la realtà per com’è. Non è mai stato obiettivo ma recentemente ha imparato ad ammetterlo, a contaminarsi con la finzione e in questo ha fatto un salto in avanti. Quindi non è un problema che Il mio amico in fondo al mare sia una costruzione narrativa molto fasulla, cioè che assembli le immagini e poi ci costruisca sopra un racconto a posteriori, senza nessun legame reale tra ciò che si vede e il racconto. È semmai inaccettabile la maniera in cui nel raccontare la relazione tra un umano e un polipo ci sia più attenzione per l’umano. Il mio amico in fondo al mare sembra più una maniera per raccontare Craig Foster, le sue piccole difficoltà e i suoi quotidiani drammi una grande villa di fronte al mare. La quantità di inquadrature con l’umano che guarda il mare, l’umano fuori dall’acqua, l’umano che disegna al tavolo sono almeno tante quante quelle del polipo nel mare.

Solo che sono meno significative, ordinarie, vanitose.

Non ci sono dubbi che le immagini girate e rubate sott’acqua siano eccezionali e raccontino, come viene detto all’inizio, un mondo parallelo in cui le forme di vita somigliano agli alieni del cinema di fantascienza. C’è qui un know how di documentari naturalistici eccezionale, messo al servizio di una storia semplice e del racconto di un anno nella vita di un essere che vive per l’appunto un anno solo. O almeno così ci viene detto. L’ostinazione con cui questo documentario pretende di convincere di situazioni, sentimenti e avvenimenti solo con la parola fuori campo su scene molto montate, che potrebbero essere girate in qualsiasi momento, è fastidiosa. E di nuovo, non è una costruzione di finzione su immagini vere il problema, ma la pretesa continua e insistente che il pubblico ci debba credere, il fatto che Il mio amico in fondo al mare creda seriamente di avere il potere se non il dovere di convincere tutti che quei fatti sono avvenuti in quella maniera e che lo faccia solo dicendolo. Ancora peggio: il pubblico deve anche credere che il narratore sappia i sentimenti provati dal polipo e che questi siano come li racconta lui.

La voce fuori campo costruisce non solo i fatti, ma anche i sentimenti, attribuisce al polipo intenzioni ed emozioni influenzando così la percezione di quel che vediamo. Un tentacolo allungato per toccare qualcosa diventa un bisogno sentimentale, movimenti assieme ad altri pesci diventano gioco ecc. ecc. Ma sono solo affermazioni, un commento molto semplice quanto arbitrario basato su ciò che il cinema ci ha abituato a pensare degli animali, cioè che possiedano le nostre medesime emozioni e volontà.
È grande infatti la capacità di Il mio amico in fondo al mare di costruire il fascino di un polipo appoggiandosi sulle caratterizzazioni antropomorfe che conosciamo dall’animazione, attribuendogli obiettivi e ragionamenti a partire vaghe basi scientifiche. È grande inoltre la quantità di materiale girato e la sua varietà, che poi è ciò che gli consente di creare storie, inseguimenti e palingenesi. Ma è piccolissima la fatica che fa questo documentario premiato con l'Oscar per fondere vero e falso, non c’è nessuna idea di cinema che vada più in là del commento alle immagini. I registi Pippa Ehrlich e James Reed sono talmente arroganti da pretendere di convincere il pubblico che davvero Foster sia solo come dice, negli abissi, di aver conquistato la fiducia del polipo in solitaria, quando è palesemente inquadrato da una seconda persona.

Se poi a fronte di tutto questo ci fosse almeno una grande parabola, cioè se la storia di finzione fosse almeno scritta bene ci si potrebbe passare sopra. Ma non ha nessun senso farlo per una storia così scialba e ruffiana.

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