Il male non esiste, la recensione | Festival di Venezia

Hamguchi racconta con un’eleganza e una sintesi sconcertanti l’abisso che divide contesti sociali differenti, parlandoci di un’incomunicabilità profonda e angosciante

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La recensione di Il male non esiste, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023

Il male non esiste, ci dice Ryūsuke Hamaguchi a caratteri cubitali, tramite il titolo del film. Si tratta di una sottile ironia, poiché in questo placido quadro di vita montana le classiche opposizioni morali sono solo apparenti (i capitalisti della città a rappresentare i cattivi invasori, un tranquillo montanaro la parte giustamente lesa) mentre il male invece esiste a tinte fosche, e lo si può cogliere solo se si ha il coraggio di guardare nella direzione giusta, andando oltre il proprio pregiudizio positivo.

Come a dirci già solo strutturalmente ciò che il film vuole raccontare a un livello molto più profondo, Hamaguchi costruisce con una meravigliosa raffinatezza un film di aspettative frustrate, che si gonfia silenziosamente come una bolla di sapone fino ad esplodere all’improvviso, facendoci capire in un solo e unico istante come tutto ciò che abbiamo visto era il frutto di un troppo facile preconcetto, mentre la realtà dei sentimenti umani è molto più complessa di quanto una sola opposizione possa spiegare.

Ambientato in un piccolo villaggio montano fuori Tokyo, Il male non esiste ha come oscuro ed enigmatico protagonista Takumi (Hitoshi Omika). Un uomo tranquillo, silenzioso, che in prima istanza vediamo tagliare la legna, raccogliere acqua cristallina, nominare gli alberi con la figlia Hana e vivere una vita frugale e desiderabile per la sua placida calma. Hamaguchi ci tiene particolarmente a farci osservare a lungo la quotidianità di Takumi con lunghi piani sequenza (sembra quasi un documentario di Frederick Wiseman per la sua esaustività d’osservazione), e questa intensità, come la calma con cui arriva ad ogni svolta di trama, sarà cruciale per ribaltare la nostra idea sul personaggio e sul film.

Quando nel villaggio arriverà infatti una coppia di rappresentanti di un’impresa di spettacolo che vuole costruire un glamping (un camping-glam, né un camping né un hotel) per prendere dei sussidi, gli abitanti si opporranno intensamente, avvertendoli che il loro operato andrà a ledere le falde acquifere e scombinerà l’equilibrio idrico e quello sociale con l’arrivo di turisti ignari delle regole della montagna.

A partire da questo contesto desiderabile, dove l’immaginario del buon vivere fa da cartolina a sentimenti più oscuri, Il male non esiste racconta con un’eleganza e una sintesi sconcertanti l’abisso che divide contesti sociali differenti, parlandoci di un’incomunicabilità che è molto più profonda e angosciante della mera diversità delle abitudini o della provenienza. Come se Hamaguchi fosse arrivato al nocciolo estremo del suo discorso e del suo cinema, qui molto più magro che in Drive my car, il film si contrae durante la visione per poi espandersi nel significato continuamente, dopo i titoli di coda.

La musica e il montaggio hanno qui un valore fondamentale proprio nella costruzione delle aspettative: sentiamo che la tragedia è imminente, poi il film strappa improvvisamente sul silenzio e ci trasporta da un’altra parte, quasi prendendosi gioco di noi. Tutto ciò è decisivo ed essenziale finché questo respiro non arriva al suo limite estremo, con una scena dove tutto si aggroviglia e tutto si allinea, a mostrarci un lato tragico che è visivamente lontano, incerto nella sua dinamica (ad affermarci il limite della nostra comprensione) ma semplicissimo nel suo valore metaforico: anche un cervo è un animale innocuo, a meno che non venga ferito da un proiettile e abbia il suo cucciolo vicino. In quel caso, ci si può aspettare di tutto.

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