Il legionario, la recensione | Locarno 74

Lo scontro tra sopravvivenza e legalità è portato dentro una persona, Il legionario con il piede in due staffe che ha la famiglia nello stabile che deve sgomberare

Critico e giornalista cinematografico


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Il legionario, la recensione | Locarno 74

Subito, la prima scena di Il legionario ribalta il clichè più intoccabile del cinema italiano: in uno scontro durante una manifestazione sono i manifestanti ad essere una massa indistinta, mentre i poliziotti, nonostante le divise, sono tutti diversi: hanno reazioni diverse, umanità diverse e si aiutano nel contrasto a ciò che li spaventa e minaccia la loro incolumità. Il punto di Il legionario è proprio di ribaltare lo sguardo ma invece di farlo per sostenere una parte più dell’altra, lo fa per raccontare lo scontro. L’idea cinematografica è che questo contrasto avvenga tutto dentro al corpo del protagonista, cioè che il conflitto vero, quello armato, sia anticipato da uno interiore. Che massacra e tormenta.

Il corpo perfetto per tutto questo è quello di Daniel, un seconda generazione figlio di immigrati, totalmente romano, poliziotto della celere ma dai tratti africani. Viene dal mondo illegale ma lavora per il rispetto della legge. È perfettamente integrato, ha una moglie bianchissima e biondissima in attesa di bambina, i compagni lo chiamano col nome di battaglia Ciobar, per via del colore, e tutti sanno che la sua famiglia d’origine non c’è più. Non è vero. La sua famiglia c’è, sta a Roma e vive in uno stabile occupato. Madre religiosa e testarda e fratello con cui non condivide nulla che si è posizionato alla testa degli occupanti. Il problema di Daniel è che al reparto celere è arrivato l’ordine di sgomberare il palazzo con la forza.
Ci sono gli elementi per un The Raid: Redemption italiano ma Hleb Papou interessa raccontare tutto quello che c'è prima dell'assalto e far scoppiare la bomba dentro al suo protagonista, sempre più intrattabile a mano a mano che si avvicina lo sgombero. Il classico animo diviso con cui raccontiamo i seconda generazione, stavolta è non diviso tra non sentirsi né davvero italiano né davvero del paese da cui viene la propria famiglia, ma tra sopravvivenza e legalità.

Nello spettro che sta tra il cinema di genere e quello d’autore, cioè nello spettro che va dall’azione più commerciale alla stasi e alla riflessione, Il legionario si posiziona in un punto in cui pochi, in Italia, sono capaci di stare: poco dopo la metà nella direzione del genere. Papou conosce così bene la potenza dello sguardo filmico da riuscire in pochi tratti a raccontare e voler bene a tutti, ai celerini più fascisti come agli occupanti più violenti. Anche ai peggiori riconosce il diritto all’essere umani. È così che crea la tensione che alimenta un film dal passo incalzante fondato sull’attesa dello scontro. Germano Gentile, il protagonista, si muove tra i corridoi della centrale, sul ring di allenamento e nel palazzo occupato dove vive la madre sempre come un bufalo ferito, non capisce più nulla, cerca un’impossibile soluzione che gli eviti di affrontare la sua doppia natura e scegliere se essere celerino o occupante. Questo Papou lo sottolinea spesso con il montare di una musica parente del rumore, su primi piani di Germano, ma senza che la soluzione sia evidente o compiaciuta.

Non si può non applaudire di fronte ad un esordio con mano così ferma e soprattutto scritto così bene (da Giuseppe Brigante, Emanuele Mochi oltre dallo stesso Papou a partire dal suo cortometraggio omonimo), in cui l’impressione è che non ci sia un minuto di troppo o uno stacco buttato via, in cui i dialoghi hanno la schietta onestà della lingua realmente parlata e gli intrecci e le svolte fondamentali nel creare l’incastro in cui è preso Ciobar, si presentano con grande naturalezza. Sembra l’ABC ma sappiamo bene che non lo è.
Infine risolvere una storia simile, trovare cioè una chiusa coerente, sensata e non semplicistica al grande showdown finale tra le due anime di Ciobar, è forse la conquista maggiore del film che addirittura sa anche quando chiudere tutto e mettere la parola fine senza odiose code, sottofinali e conclusioni che tirino morali posticce e paternaliste.

Pur non avendo niente a che vedere con il film di Gabriele Mainetti questo riesce nella stessa impresa che 6 anni fa riusciva a Lo chiamavano Jeeg Robot, ricordarci che cos'è che amiamo e abbiamo sempre amato nel nostro cinema e trasformare l'insulto più comune degli ultimi decenni, "è molto italiano", in un complimento.

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