Il legionario, la recensione | Locarno 74
Lo scontro tra sopravvivenza e legalità è portato dentro una persona, Il legionario con il piede in due staffe che ha la famiglia nello stabile che deve sgomberare
Subito, la prima scena di Il legionario ribalta il clichè più intoccabile del cinema italiano: in uno scontro durante una manifestazione sono i manifestanti ad essere una massa indistinta, mentre i poliziotti, nonostante le divise, sono tutti diversi: hanno reazioni diverse, umanità diverse e si aiutano nel contrasto a ciò che li spaventa e minaccia la loro incolumità. Il punto di Il legionario è proprio di ribaltare lo sguardo ma invece di farlo per sostenere una parte più dell’altra, lo fa per raccontare lo scontro. L’idea cinematografica è che questo contrasto avvenga tutto dentro al corpo del protagonista, cioè che il conflitto vero, quello armato, sia anticipato da uno interiore. Che massacra e tormenta.
Ci sono gli elementi per un The Raid: Redemption italiano ma Hleb Papou interessa raccontare tutto quello che c'è prima dell'assalto e far scoppiare la bomba dentro al suo protagonista, sempre più intrattabile a mano a mano che si avvicina lo sgombero. Il classico animo diviso con cui raccontiamo i seconda generazione, stavolta è non diviso tra non sentirsi né davvero italiano né davvero del paese da cui viene la propria famiglia, ma tra sopravvivenza e legalità.
Nello spettro che sta tra il cinema di genere e quello d’autore, cioè nello spettro che va dall’azione più commerciale alla stasi e alla riflessione, Il legionario si posiziona in un punto in cui pochi, in Italia, sono capaci di stare: poco dopo la metà nella direzione del genere. Papou conosce così bene la potenza dello sguardo filmico da riuscire in pochi tratti a raccontare e voler bene a tutti, ai celerini più fascisti come agli occupanti più violenti. Anche ai peggiori riconosce il diritto all’essere umani. È così che crea la tensione che alimenta un film dal passo incalzante fondato sull’attesa dello scontro. Germano Gentile, il protagonista, si muove tra i corridoi della centrale, sul ring di allenamento e nel palazzo occupato dove vive la madre sempre come un bufalo ferito, non capisce più nulla, cerca un’impossibile soluzione che gli eviti di affrontare la sua doppia natura e scegliere se essere celerino o occupante. Questo Papou lo sottolinea spesso con il montare di una musica parente del rumore, su primi piani di Germano, ma senza che la soluzione sia evidente o compiaciuta.
Infine risolvere una storia simile, trovare cioè una chiusa coerente, sensata e non semplicistica al grande showdown finale tra le due anime di Ciobar, è forse la conquista maggiore del film che addirittura sa anche quando chiudere tutto e mettere la parola fine senza odiose code, sottofinali e conclusioni che tirino morali posticce e paternaliste.
Pur non avendo niente a che vedere con il film di Gabriele Mainetti questo riesce nella stessa impresa che 6 anni fa riusciva a Lo chiamavano Jeeg Robot, ricordarci che cos'è che amiamo e abbiamo sempre amato nel nostro cinema e trasformare l'insulto più comune degli ultimi decenni, "è molto italiano", in un complimento.