Il legame, la recensione

Ricalcato su molte immagini già di successo nell'horror, Il legame riesce però ad essere un buon film di paura italiano, credibile, concreto e onesto

Critico e giornalista cinematografico


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Il legame, recensione del film di Netflix

Come Shining, come Funny Games e come molti film sul male anche Il legame parte con un arrivo, l’arrivo di una famiglia in un luogo. E quel luogo è l’unico, ad oggi, che in Italia possieda una qualche credibilità horror: il sud.

Come vogliono le convenzioni la famiglia si reca a trovare i parenti di lui, mentre lei è straniera (un grande classico del giallo e dell’horror italiano), non è mai stata in quei posti e non le appartengono. La figlia dei due (che in realtà è figlia solo di lei) sarà la vittima su cui si accanirà un male strano, inspiegabile dalla scienza ma chiaro alle donne del luogo, un male che non si cura con le medicine ma è legato a fatti avvenuti decenni prima e mai risolti.

La sceneggiatura di Il legame (scritta dal regista Domenico De Feudis assieme a Daniele Cosci e Davide Orsini, due con sulle spalle i pochissimi horror italiani indipendenti degli ultimi anni) non vuole inventarsi molto ma cerca di centrare bene, con stile, classe e maestria quello che meno siamo capaci di fare, cioè l’horror moderno. Per arrivarci non esita a pescare immagini di comprovato successo. Ci sono fili estratti dalla bocca come i capelli di Samara in The Ring, ci sono le piante che crescono sotto il letto come segno di un rito viste in Il labirinto del fauno e anche il design delle creature possedute suona familiare. Una volta tanto però tutto questo non importa. Perché Il legame, fa strano anche solo scriverlo, è buon film dell’orrore italiano. E il fatto che sia su Netflix invece che in sala forse potrebbe essere una salvezza.

È una grande scelta che il volto più noto, Riccardo Scamarcio (anche produttore), abbia una parte secondaria nonostante sia impeccabile su toni che non avevamo mai visto addosso a lui.
Perché Il legame, andando al sodo, riesce a fare il lavoro che sfugge al cinema italiano d’orrore dozzinale che vediamo di solito, riesce cioè a trasfigurare i personaggi fino a non farli più somigliare ad umani, avvicinandoli a qualcos'altro, cioè al disumano, attraverso l’immagine, con movimenti, colore della pelle, bulbi oculari e rumori che producono muovendosi. Quello è ciò che spaventa o almeno crea una forte tensione, ovviamente, e quando il film ci si avvicina con credibilità tutto gira per il verso giusto.

Certo anche quello trasfigurato è un immaginario derivato, fatto di vesti abbondanti bianche e capelli lunghi e sporchi (di nuovo The Ring), ma va bene. Anche perché è poi il character design della nonna e il rapporto silenzioso da uomini di campagna che ha con la sua servitrice a bilanciare le trovate con un po’ di originalità.
Un finale aperto suggerisce possibilità di sfruttamento ulteriore e una volta tanto è una buona notizia.

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