Il labirinto del fauno

Spagna, 1944. La piccola Ofélia si trasferisce con la madre nella residenza del nuovo marito e si ritrova testimone di eventi tragici, ma anche magici. La parte fantasy è notevole, quella storica traballante: un film interessante, ma non il capolavoro annunciato…

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Molto spesso, si criticano certi film perché furbi e realizzati per compiacere una larga fetta di pubblico. Di solito, lo si fa con certe pellicole melodrammatiche o per famiglie, che suscitano la lacrima facile ed emozionano lo spettatore meno smaliziato.
In realtà, questo discorso andrebbe fatto anche con certe pellicole di genere, che sembrano ormai dover lanciare messaggi ‘importanti’ e magari avere dei chiari riferimenti politici per ottenere maggiore considerazione da parte della critica.

In quest’ambito, Il labirinto del fauno è un esempio perfetto. La ‘storia fantastica’ di questa ragazzina ribelle è assolutamente magica e nonostante un budget ridottissimo (sui 5-7 milioni di dollari), sono numerosi i momenti visionari veramente convincenti (basti pensare al mostro con gli occhi nelle mani, una delle visioni più terrificanti e impressionanti degli ultimi anni).
Il problema è che il contesto storico (la Spagna franchista del 1944) non funziona bene, anche perché il regista divide abbastanza nettamente le due vicende. In realtà, non è soltanto l’ambientazione a non convincere, ma proprio tutta la vicenda politica. Il capitano franchista è una macchietta sadica, ma anche talmente imbecille da non rendersi conto chi è che lo tradisce tra quelli che gli stanno vicino. Viene da pensare ai nazisti ridicoli con la sigaretta in mano nei film di cui parlava Jim Jarmusch in Blue in the Face. D’altra parte, è difficile capire come un gruppo di resistenti così stupido da accendere un fuoco in pieno bosco e perdere un antibiotico fondamentale in maniera così banale possa sopravvivere più di 5 minuti. In realtà, bisognerebbe porre queste domande allo sceneggiatore, che poi è lo stesso Del Toro.

L’impressione è che, come tanti registi di questo tipo, anche Guillermo Del Toro non sia molto interessato alla storia ‘realistica’ che racconta, ma si voglia concentrare troppo sulla parte favolistica. Per carità, l’intento sarebbe anche apprezzabile, ma non per questo si può essere così superficiali nelle parti meno magiche.
E’ interessante constatare come la pellicola sia in sintonia con quelle recenti (e molto celebrate) di altri registi messicani, come Alfonso Cuarón (I figli degli uomini) e Alejandro González Iñárritu (Babel). Il lavoro sulle immagini, sulle scenografie e in generale dietro la macchina da presa in tutti questi film è fantastico, ma si ha l’impressione che ciascuno di questi registi sia convinto di raccontare una storia molto più profonda ed efficace di quanto sia in realtà.

E’ un peccato che Del Toro quindi si lasci andare in diversi momenti, perché Il labirinto del fauno spesso è decisamente efficace. Penso, per esempio, al lavoro sul sonoro, che conferisce la giusta inquetudine all’inizio della vicenda (non solo gli scricchiolii della casa, ma anche il rumore fastidioso dei guanti del capitano). Ma in altri casi, il regista è troppo esplicito e troppo tendente al gore, elemento poco adatto in un prodotto di questo tipo. Non sono solo alcune scene di tortura a lasciare perplessi, ma anche una ‘ricucitura’ decisamente troppo autoindulgente. Curioso (ma forse non tanto, visto il discorso fatto in precedenza) che la morte più atroce sia quella di una creatura fantastica.

Per fortuna, il finale (anche se un po’ troppo prevedibilmente citazionista e meno sorprendente di quello che vorrebbe) è convincente e ci ricorda che le fiabe migliori sono quelle non edulcorate. E questo è un pregio del film decisamente da non sottovalutare. Insomma, una visione spesso magica e una storia con troppe banalità nello stesso film. A voi scegliere se prendere o lasciare…

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