Il Grinch, la recensione
La versione Illumination di Il Grinch annulla le potenzialità prettamente narrative e si concentra solo sulle gag
L’essere che ruba il Natale era già arrivato in varie versioni animate in tv (una volta anche in live action con Jim Carrey) e pur essendo una storia per bambini aveva una maniera tutta sua di rappresentarne la meschinità. Che poi è la forza del racconto originale di Dr. Seuss, elaborare una sua versione del maligno per bambini, innocuo eppure concreto. Anche perché, come per Scrooge, il punto della parabola del Grinch è proprio la conversione, il potere salvifico delle feste natalizie. Qui invece il protagonista è subito normale e avrà una metamorfosi visiva, cioè apparirà finalmente cattivo, solo quando maturerà la decisione di rubare il Natale, ovvero a film più che inoltrato quando ormai ci è stato presentato a parole come un essere con un cuore piccolo ma nei fatti come una figura simpatica anche se asociale.
Nel momento di far diventare Il Grinch un film, passare cioè dal racconto illustrato (in rima) alla prosa per lo schermo la Illumination rinuncia all’idea di gonfiarlo e usare l’essenza della sua trama per trovarci qualcosa di personale, interessante, unico e coinvolgente (l’aveva fatto, anche se con esiti disastrosi, Ron Howard nella versione live action, l’aveva fatto Chuck Jones in quella televisiva) e depone ogni arma. Il suo Grinch sarà un collage di gag come del resto era stato già il film sui Minions e come sono diventate sostanzialmente tutte le produzioni dello studio.