Il Grande Spirito, la recensione
Partito come un poliziesco ma affogato nel consueto cinema italiano, Il Grande Spirito lascia l'amaro in bocca
Tutto quel che nell’inizio prometteva una certa coolness al ribasso, ambienti ben messi in scena e un personaggio non male (tipico da poliziesco urbano in piena ricerca di rivincita avendo superato da tempo la gioventù), rivela gradualmente un più usuale background di operai e fabbrica su cui si stagliano vite semplici di teneri ultimi. Quel che sembrava promettere una storia di violenza inizia a rivelare una natura molle, ciò che era sottilmente ironico diventa apertamente commedia amara. Alla fine così tutto quel che era stato promesso inizialmente è tradito. Sarà recuperato in un finale con scampoli di tensione nemmeno diretti male che fanno solo aumentare il rimpianto e l’amaro in bocca.
Insoddisfatto dal solo poliziesco (e forse anche dalla sola commedia amara) Il Grande Spirito si chiude a lungo sul tetto per le sue discussioni e i suoi confronti, aprendosi al resto del quartiere criminale pochissimo, si isola e scende nell’arena il meno possibile, giocando sui soliti territori del cinema italiano (con poco in più da dire). A un certo punto introduce anche una quasi-prostituta di buon cuore, figura femminile necessaria e impalpabile.
In ottemperanza a una circolare ministeriale che prevede una certa quota di cellulari gettati in mare nel cinema italiano in Il Grande Spirito ne viene buttato uno dal protagonista verso fine film. Quota rispettata.