[Cannes 66] Il Grande Gatsby, la recensione
Vicinissimo alla trama e alle parole originali, ma lontanissimo dalle sue idee di fondo, il Gatsby di Luhrmann è uno straordinario e bellissimo caos visivo anche se non all'altezza delle proprie speranze.
Nessuno sa come dare una festa al cinema meglio di Baz Luhrmann.
La maniera in cui questo Gatsby è stato piegato verso un titanismo registico romantico è burino e sincero al tempo stesso, così ingenuo e onesto da rendere plausibile ogni ralenti, delicato ogni dolly.
Nella visione di Luhrmann Jay Gatsby è Charles Foster Kane, un uomo potente e più grande della vita, un self made man che vorrebbe essere amato e lo dimostra con atti plateali e immensi ma che nessuno capisce e che l'unico amico cerca di spiegare dopo la sua morte. E' di fatto un regista che domina ogni momento con le sue decisioni, che orchestra tutto, non tralascia nessun dettaglio e pare Luhrmann stesso, cioè un uomo che non può non pensare in grande. Ogni momento di questo Grande Gatsby è pensato in grande, ogni ambiente è espanso, ogni esterno è a volo d'uccello, ogni panoramica allargata, ogni pianoforte un organo a mille canne e via dicendo. E proprio di questa iniezione continua di elementi, furore, musica, colori e coreografia il film vive e si alimenta.
Per Luhrmann esiste solo il movimento e Il Grande Gatsby dice finalmente a parole qualcosa che tutto il suo cinema dimostra: che per il regista australiano non può esistere intimità se non in presenza di molte altre persone, non ci può essere sincerità sentimentale se non nel mezzo dell'eccesso barocco.
Tutti i momenti più importanti e rivelatori si svolgono alla presenza di molte persone, se possibile ad una festa, come anche tutti gli sguardi più intensi e i gesti significativi o rivelatori, quel che avviene tra pochi, anche tra due soli sono dettagli, dialoghi che spesso nemmeno ascoltiamo, materia non importante. E' solo nell'orgia generale che Luhrmann concepisce la possibilità di esprimere se stessi ad un'altra persona. Il resto è menzogna indiscreta.
Tuttavia, se c'è una cosa che l'equilibrio perfetto di Moulin Rouge ci ha insegnato è che quest'idea grandiosa, elaborata e complicata di cinema può reggersi in piedi solo se supportata da interpretazioni fuori dall'ordinario, capaci di rendere antiretorici i primi piani retorici, non ruffiani i gesti ruffiani e originali le frasi più banali. Interpretazioni in grado di reggere il pesantissimo grado di magnificienza e carico espressivo raggiunto da tutti quanti gli altri elementi delle immagini che le prevedono. Come si può del resto reggere il peso di un immenso carrello digitale a volo d'uccello in mezzo ai fuochi d'artificio di una festa che culmina passando tra le fontane e i coriandoli su una mano stretta all'altra e una dichiarazione d'amore di un piccolo uomo ad una piccola donna, se non con un volto e un momento di recitazioni fuori dal comune?
Purtroppo non è pensabile aspettarsi simile straordinarietà da Carey Mulligan e Tobey Maguire. Mentre Leonardio DiCaprio è impeccabile, cosa che in un simile delirio di grandezza, purtroppo, è insufficiente.
Talmente è evidente tale inadeguatezza che l'unica persona in grado di reggere l'esagerato carico di melodramma spicca a vista d'occhio: Elizabeth Debicki (nel ruolo di Jordan Backer). In un mondo perfetto avrebbe interpretato lei Daisy.