Il giuramento di Pamfir, la recensione

Il giuramento di Pamfir è una discesa agli inferi, dettagliata e coinvolgente, nell’underground del contrabbando ucraino e l’esplorazione umana e culturale di una piccola comunità contadina per cui, come dicono più volte personaggi, il contrabbando è una tradizione locale.

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La recensione di Il giuramento di Pamfir, al cinema dal 10 agosto

Siamo in Ucraina, nella regione dei Carpazi al confine con la Romania, ma la guerra è un affare lontano. Quella di Leonid (Oleksandr Yatsentyuk) detto ‘Pamfir’, è invece una storia di autodeterminismo illusorio e degradante, la parabola di un uomo che pensava di essere scampato dalla vita criminale quando in realtà la possibilità di scelta non l’ha mai avuta davvero. Esordio alla regia del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, Il giuramento di Pamfir è una discesa agli inferi, dettagliata e coinvolgente, nell’underground del contrabbando ucraino e l’esplorazione umana e culturale di una piccola comunità contadina per cui, come dicono più volte personaggi, il contrabbando è una tradizione locale.

Personaggio tragico di una tragedia contemporanea, Pamfir ha lavorato a lungo in Germania ma decide di tornare brevemente a casa dove lo aspettano la moglie Olena e il figlio Nazar. Sta per arrivare il carnevale pagano e Nazar vorrebbe che il padre rimanesse almeno una volta per quell’occasione, così con un gesto estremo dà fuoco alla parrocchia locale: Pamfir, per proteggerlo, se ne prenderà la responsabilità ma sarà al contempo costretto a tornare a trafficare per pagare i debiti.

Sotto un cielo sempre grigio, tra il fango e con il timorato cattolicesimo della comunità a definire l’idea di un determinismo irrevocabile, Il giuramento di Pamfir ci cala letteralmente sul campo attraverso lunghi piani sequenza ad altezza personaggio (statici o in movimento), dandoci l’impressione di uno svolgimento in tempo reale delle azioni di Pamfir e insieme dell’impossibilità di fuga da quel flusso di eventi crudeli e spietati. Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk in questo modo allinea lo spettatore al sentire del protagonista: non siamo troppo lontani dall’idea di action sociale e coreografato di Romain Gavras (Athena), tuttavia a Il giuramento di Pamfir manca proprio un passetto in più di nella direzione dell’empatia per rendere completa quella stessa idea di tragedia criminale immersiva.

Pamfir è infatti un personaggio a cui stiamo costantemente vicini, lo vediamo mettersi sempre di più nei casini a ogni scelta che prende, tutto quello che fa porta a un’ulteriore svolta. Tutto questo è positivo a livello di intreccio e ritmo e di racconto del contesto, tuttavia il protagonista ci sembra così inerme e rassegnato a quello che vive che è difficile sentirne (e non solo vedere) il conflitto.

La cosa davvero migliore di Il giuramento di Pamfir è allora il modo in cui Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk ci racconta la comunità e le sue dinamiche senza bisogno di inondarci di informazioni. È invece il modo in cui i personaggi parlano, i discorsi che fanno, come si vestono o arredano casa che rende ad effetto immediato il senso di vicinanza e familiarità di un luogo altrimenti lontano, ci è subito chiaro perché fanno quello che fanno (la dimensione quotidiana del crimine: anche la nonna è a favore del contrabbando) e il perché delle aspirazioni di molti di scappare. L’Unione Europea è letteralmente a due passi, oltre il bosco. Ma non potrebbe essere più lontana nell’esperienza di chi la guarda dall’altra parte.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Il giuramento di Pamfir? Scrivetelo nei commenti!

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