Il gioco del destino e della fantasia, la recensione

Se c'è una cosa che Il gioco del destino e della fantasia dimostra è che anche storie solo accennate possono smuovere qualcosa negli spettatori

Critico e giornalista cinematografico


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Il gioco del destino e della fantasia, la recensione

C’è un’ambizione molto strana dietro Il gioco del destino e della fantasia, quella di accennare storie, di mettere in scena dei soggetti e trasformarli in sceneggiature rinunciando alle conclusioni o agli archi consueti. Gli episodi slegati da cui è composto il film sono una serie spunti poco convenzionali blandamente svolti eppure, lo stesso, molto approfonditi. Sfrondando queste storie di quasi tutto rimane solo la loro essenza, il nodo sorprendente che scatena reazioni impreviste, su cui Hamaguchi si concentra.

Sono presentazioni di personaggi in situazioni particolari che hanno a che vedere con coincidenze e sentimenti. Storie che non partono mai davvero ma che sono sorprendenti negli esiti.
Curiosamente è lo stesso meccanismo delle storie di Pulp Fiction: partire in una maniera e tramite eventi sorprendenti finire in tutt’altra, senza che i personaggi debbano per forza maturare qualcosa o senza che ci sia un finale propriamente detto.

I veri protagonisti di queste storie sono infatti sentimenti e non le persone che li possiedono. C’è la vendetta di uno studente su un professore attraverso l’azione di una sua amica che prende una piega intima e tenera, ci sono due amiche di vecchia data che si incontrano confessandosi cosa è successo fino ad uno strano colpo di scena che mette tutto in questione, e c’è una ragazza che nel sentire l’amica raccontare della sua nuova fiamma riconosce che sta parlando del suo amante. Cosa accade a questi sentimenti che pensiamo di conoscere quando una coincidenza ribalta tutto?

Le emozioni che emergono alla fine non sono inedite, prendono percorsi strani e diventano qualcosa di originale eppure riconoscibile. Cosa può provare una ragazza nello scoprire una vulnerabilità contagiosa di un uomo potente che ha cercato di incastrare?

Con coerenza anche la messa in scena è ridotta la minimo. Hamaguchi lavora quasi solo di parola e recitazione. Le scene sono lunghe conversazioni in uno o due ambienti con quasi nessun evento ad interromperle. Nel film successivo a questo, passato a Cannes (Drive My Car), il punto sono le traversate in auto, invece in questo film (vincitore alla Berlinale del gran premio della giuria) il punto è la fissità, quel potere evocativo del dialogo di tirare fuori qualcosa di non convenzionale. Le interpretazioni infatti non sono nemmeno stellari. È proprio tutto il potere della parola e della scrittura, la situazione che si srotola prendendo percorsi che nessuno poteva pensare. È in buona sostanza un’incredibile celebrazione delle storie, dell’arte del racconto e ovviamente del potere del cinema.

Paradossi e piccole trame abbozzate riescono comunque a creare affezione e immedesimazione. Privato di tanti elementi altrove cruciali questo film di corti (il più breve dura qualche minuto, su un bus, ed è bellissimo) è lo stesso avvincente. Lo stesso risveglia fantasmi di esperienze passate dentro gli spettatori portandoli dentro una trama accennata.
Spesso si dice che ciò che viene raccontato importa poco, l’importante è come viene raccontato, e lo si dice per svilire la crucialità dell’intreccio ed esaltare quella dello svolgimento. In questo film accade l’esatto opposto, intrecci molto forti non sono mai sviluppati davvero ma solo annacquati, annacquati magnificamente s’intenda, e lo stesso creano quella strana forma di avvincente attrazione del cinema.

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