Il divin codino, la recensione
Il mistero di Roberto Baggio, il suo essere un calciatore come nessuno alto in Il divin codino piega anche la forma del film sportivo per celebrare i fallimenti
Non c’è nessun giocatore di calcio, in Italia, amato come Roberto Baggio. Non è solo una questione di talento e bravura, c’è qualcosa nella sua figura e nella sua parabola che nella percezione comune lo differenzia dagli altri sportivi del suo calibro, cioè le star mondiali. Questo cerca di indagare Il divin codino, il mistero di una carriera originale, e la risposta che si dà sta nei fallimenti.
Il primo infortunio grandissimo, che sembrava aver stroncato la carriera quasi spedendolo in serie B, da cui uscirà buddista. Il rigore sbagliato alla finale di Usa ‘94, che lo perseguiterà per sempre e da cui dovrà riemergere. La mancata convocazione per i mondiali del 2002 che sanciscono la fine di un sogno e da cui dovrà uscire con una nuova consapevolezza. In un genere che da Rocky in poi celebra le vittorie sportive facendole coincidere con le vittorie umane, questo film celebra le sconfitte sportive facendole coincidere con dei trionfi umani. La chiave di lettura che giustifica l’amore nazionale per un campione caratterizzato non da ciò che ha vinto ma da quanto abbia perso.
È un film pieno di buddismo Il divin codino, la sua filosofia attraversa il film piegando i luoghi comuni del genere (il rapporto con la famiglia, i dissidi professionali, gli allenamenti), senza che tuttavia sia mai attraversato davvero dalla spiritualità. Baggio è un buddista più che convinto, il film molto meno. Lo osserva, lo racconta e lo guarda ma da un punto di vista laico, per questo le due parti (storia e spiritualismo) si sovrappongono non sempre benissimo. A scrivere ci sono due calibri pesanti, Stefano Sardo e Federica Rampoldi, e quest’approccio non è poco per un film biografico che ha la missione spinosa di trattare un personaggio ancora in vita con l’accordo e la collaborazione di quel personaggio, quindi seguendo la sua “narrazione”. Da questo punto di vista, considerate queste difficoltà e il fatto che, abituati bene dalla serialità, è sempre più difficile seguire il riassunto di una carriera nella durata breve di un film, Il divin codino è un mezzo miracolo.
A deludere semmai è il resto, tutto ciò che non sono le premesse e l’impostazione. È tutta la parte di ricostruzione, i personaggi mascherati dai loro alter ego reali e le situazioni ricostruite che suonano sempre un po’ posticce (stranamente non le sequenze di calcio giocato, la parte più complicata, che non sono certo impeccabili ma nemmeno il disastro che si poteva temere). Con l’eccezione mirabile del casting di Martufello come Carlo Mazzone, l’unico creativo e inventivo che non calca ma enfatizza trovando la verità nella distanza, Letizia Lamartire invece di idealizzare la realtà la rincorre finendone schiacciato.
Non è insomma difficile essere un po’ respinti dalla parodia della storia che fa il film, ma dietro tutte queste difficoltà forse c’è l’unica possibile maniera di raccontare, spiegare e capire il mistero Roberto Baggio.
Siete d'accordo con la nostra recensione? Diteci cosa ne pensate dopo aver visto Il divin codino, su Netflix dal 26 maggio.