Il diavolo veste Prada

Anne Hathaway è meravigliosa, la storia è meno scontata di quanto si potrebbe pensare, i comprimari sono bravissimi, ma il personaggio di Meryl Streep è scritto malissimo. Decisamente, un film che non annoia…

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Il diavolo veste Prada ha chiaramente due punti di riferimento. Uno è ovviamente Sex and the City. Per accorgersene, basta guardare il nome del regista, David Frankel, che ha diretto diversi episodi del fortunato serial. Ma anche la storia, incentrata sul mondo modaiolo-chic di New York e che si svolge negli stessi ambienti che frequentavano le varie Carrie, Miranda e Samantha, con un feticismo analogo per quanto riguarda scarpe e vestiti di haute couture. E che dire dello strepitoso personaggio interpretato da Stanley Tucci (ma perché nessuno lo dà tra i favoriti all’Oscar come non protagonista?), che sembra il gemello (un po’ più complesso) di Stanford, l’amico gay di Carrie?

Anche il secondo modello è decisamente evidente: Wall Street. Giovane ragazza/o inizia a lavorare con il/la migliore nel suo campo e si fa ‘plagiare’, diventando succube del fascino del potere. Una differenza evidente (oltre naturalmente al sesso dei personaggi) è il fatto che la giovane protagonista (un Anne Hathaway notevole e che dimostra ancora una volta di essere tra le poche attrici americane da tenere d’occhio) è, all’inizio, decisamente più innocente del Martin Sheen della pellicola di Stone (che peraltro era un dramma, non una commedia, quindi doveva essere più pessimista). Ma l’altra differenza è anche il punto più debole del film: il personaggio di Meryl Streep.

Attenzione, non sto parlando della sua interpretazione, lei è bravissima, soprattutto quando (raramente) emerge il suo lato più umano. Ma il problema è che il suo personaggio non ha lo giusto spessore per essere credibile ed affascinante. Gordon Gekko si poteva discutere sul piano morale, ma non si aveva nessun dubbio che fosse “il migliore in quello che fa, anche se quello che fa non è piacevole”, tra citazioni de L’arte della guerra e scelte d’affari azzeccatissime. Ma Miranda Priestly, direttrice della mitica (e fittizia) rivista Runway, viene rappresentata solo nel suo lato più odioso, senza mostrare il suo talento (tanto da farci pensare che sia più un’arrivista dalle ottime doti politiche, come farebbe pensare il finale).

Detto questo, la commedia scivola via che è un piacere e in maniera discretamente intelligente. Come detto, non si tratta della storia più originale del secolo, ma ci sono alcuni particolari che meritano la lode. Intanto, una quasi totale assenza di manicheismo (non ci sono, a differenza di molti prodotti simili, dei veri cattivi) e i problemi nella relazione della giovane protagonista sono raccontati in maniera molto credibile, anche nei suoi aspetti meno piacevoli.

D’altronde, il regista se la cava bene: senza essere un genio, non rientra neanche nella banale categoria dei videoclippari beceri. Insomma, un onesto artigiano, categoria di cui ci sarebbe molto bisogno attualmente. Peccato che lo stile dietro la macchina da presa (degno di uno stilista discreto) non si rifletta nella scelta delle canzoni, che in diversi momenti sembrano fuori luogo.
Ma forse l’elemento più positivo della pellicola sono gli interpreti di contorno. Se di Stanley Tucci abbiamo già detto, è da segnalare la trasformazione di Emily Blunt, da assistente sicura di sé a donna in crisi nel suo lavoro.

Insomma, 109 minuti molto gradevoli, anche se non perfetti. Chissà che ne pensa Valentino

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