Il concorso, la recensione
Pronto a cavalcare opinioni oggi largamente accettate, Il concorso trasforma discorsi dirompenti e radicali in assunti buoni per un pubblico addormentato
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Il concorso è il tipo di film in cui la regista si assicura che sia ben inquadrato il titolo dei libri che i personaggi leggono, a costo di fargli tenere posture innaturali, così che lo spettatore sia certo che si tratta di figure intellettuali. Il tipo di film in cui ogni evento è immediato e ogni capovolgimento è così rapido da suggerire che le convinzioni dei personaggi non sono realmente tale. Sally Alexander, l’attivista interpretata da Keira Knightley (con la consueta correttezza priva di sapore), prima è in conflitto con le femministe più attive, poi in una scena diventa il loro membro più produttivo. In questa maniera sia le femministe non guadagnano mai davanti allo spettatore lo status di un’ideologia forte, perché non sudano la posizione che occupano, sia il loro piano e la sua attuazione non sarà mai sofferto e percepito come rischioso o richiedente coraggio.
Sally Alexander da un certo punto dice in televisione che il loro movimento non ha niente contro le donne che partecipano al concorso di bellezza ma tutto contro il concorso in sé e la mentalità che c’è dietro. Il film invece sembra avere tutto contro le singole persone e non contro le istituzioni che rappresentano o portano avanti.
Così anche il secondo discorso di Il concorso, quello sul razzismo e quanto un concorso come quello del 1970, in cui per la prima volta vinse una donna di colore, poteva fare per l’avanzamento della considerazione delle donne di etnie diverse da quella caucasica, è ridotto ad un accenno. Un accenno che illude di aver visto un film complesso e sfumato. Un accenno fatto a parole in una scena tra le due protagoniste che sa di compensazione e non ha conseguenze. Non è un fatto della trama che porta a dei cambiamenti ma un evento che, ci viene detto, è cosa buona. Non lo dobbiamo capire da noi, dobbiamo solo recepire che è così.