Il complotto contro l'America: la recensione

Tradendo quanto basta il romanzo di Philip Roth, il duo di The Wire crea una controstoria di pochi anni americani che svela i mostri statunitensi

Critico e giornalista cinematografico


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Il complotto contro l'America: la recensione

Il racconto del passato viene sempre fatto in funzione del presente. È una regola aurea della narrazione. Non c’è racconto di ieri che non serva a parlare dell’oggi e non c’è maniera in cui il passato venga rimaneggiato che non sia funzionale ad una valutazione sull’attualità. Figuriamoci quando questo passato è di fantasia, cioè una deviazione dalla vera storia per servire uno scopo intellettuale.

Il Complotto Contro l’America (dal 24 Luglio su Sky Atlantic) è la fantastoria di un’America realissima in cui però Charles Lindbergh (l’aviatore che realmente aveva posizioni vicine al nazismo) si è presentato come candidato repubblicano alla presidenza e ha vinto. Nessun terzo mandato di Roosevelt dunque ma al suo posto il primo di Lindbergh. Così negli anni in cui l’America sarebbe intervenuta nella seconda guerra mondiale rimane invece neutrale, flirta con il nazismo e si avvicina ad essere un regime totalitario, quello che brutalizza le minoranze, impone con la forza le regole, silenzia i dissidenti, limita le libertà, perseguita gli ebrei.

Lo spunto dà modo alla serie di mettere in scena l’essenza del dramma: persone comuni in situazioni difficili, a cui viene chiesto di prendere decisioni che le lacerano dentro, poste davanti a questioni e dilemmi a cui lo stesso spettatore, seduto a casa comodamente, fatica a trovare una risposta o un compromesso, stimolando così quell'ingaggio che è da sempre la calamita della nuova serialità.
Il padre che non vuole lasciare un paese dove sono sempre meno desiderati, una madre spaventata che preme per la facile soluzione del Canada, gli eventi che peggiorano e le parti dei due che quasi si scambiano. I cambi di idea e i rafforzamenti. C'è in ogni svolta di Il Complotto Contro L'America un profondo senso di rischio personale e di terrore per il proprio futuro.

For all Mankind, Watchmen, The Man In The High Castle, Hollywood, le ucronie (cioè il racconto di una versione alternativa della nostra storia) sono la tendenza più importante della serialità in questo momento storico e in questo caso lo scopo è chiaro: guardandola con l’ottica del presente quella raccontata è la storia di un’America in cui una persona famosa, che tutti pensano che non sarà eletta presidente per via delle sue idee eccessivamente radicali, invece alla fine viene eletta presidente proprio per quelle idee radicali.

Il romanzo da cui viene tutto è però del 2004, scritto ben prima della presidenza Trump, è di Philip Roth e racconta della famiglia Roth, in particolare di Philip, il figlio più piccolo. È una versione di finzione della sua vita, e usa gli eventi storici modificati per occuparsi della formazione del protagonista. La sua. Un ebreo in un mondo che è autorizzato ad odiare gli ebrei invece che doverlo nascondere.

La versione televisiva in 6 puntate adattata da David Simon e scritta con Ed Burns (il duo di The Wire) è invece molto più centrata su tutta la famiglia, dà il giusto peso al fratello di Philip e soprattutto ai genitori e al cugino (un po’ meno alla sorella che si associa con il consigliere ebreo del presidente), cioè a quel nucleo di ebrei che con mille difficoltà cerca davvero di non arrendersi a lasciare il paese per il Canada come stanno facendo in molti.

È un racconto di tempestose litigate e di attivismo politico, la famiglia Roth è spaccata come il paese è spaccato. Chi odia il presidente e chi lo inneggia (evidentemente sono più i secondi), e più attraversiamo le puntate più si fa strada una paura strana, radicata. I Roth hanno paura di andare in giro, hanno il terrore di essere avvicinati. Con molta calma questa serie racconta la nascita dell’ostilità, il suo aumentare, il suo penetrare nelle vite delle persone e come distrugga tutto. Racconta l’animo nero dell’America reale tramite un’America finta.

In questo davvero non è diversa da Watchmen. Al netto della mancanza dello spunto fantastico, il discorso della serie è praticamente il medesimo. Inventare un'America di fantasia in cui dare sfogo a tutto quello che conosciamo e riconosciamo dell'America reale, in cui far esplodere le tensioni che animano il presente e mettere sotto la lente estremismi, odio, minaccia e mancanza di libertà.


Le idee di Lindbergh come quelle di Ford, che vengono espresse chiaramente nella serie, sono reali, le avevano manifestate davvero. Come alcuni provvedimenti di fantasia (l'Homestead 42) vengono da veri provvedimenti che ad un certo punto della sua storia il paese ha attuato (l'Homestead act del 1862). Tutte le radici di questa serie sono vere, sono le conseguenze ad essere inventate.
Del resto era difficile aspettarsi altro dopo, considerato quel che è successo negli Stati Uniti negli ultimi anni. Era difficile aspettarsi che l'affiorare di sospetti di brogli, delle intrusioni estere nella politica nazionale, dei furti di dati e dei complotti non portasse ad una produzione che lo racconti.

In tutto questo Simon e Burns innestano un racconto umano eccezionale per sfumatura e difficoltà. Ci sono piccoli e grandi crimini di cui si macchieranno i familiari protagonisti, chi per sopravvivere, chi per piccineria, chi per arroganza giovanile e più si va avanti più diventano macigni. Come se quel che avviene intorno a loro peggiorasse le conseguenze delle loro azioni. Sarà ad esempio letteralmente incredibile la storia del bambino che vive accanto a loro.

È una serie straordinaria Il Complotto Contro l’America, non ci sono altre parole per definirla, un prodotto ad un livello altissimo di sofisticazione che non ha paura di non concedere molto allo spettatore all’inizio e pensa solo a costruire il suo mondo. Almeno metà della durata è impiegata per seminare quel che verrà raccolto nella seconda metà, portando lo spettatore ad una partecipazione totale con i personaggi. Addirittura anche Zoe Kazan, altrove trascurabile se non proprio caramellosamente fastidiosa, trova qui un apice recitativo che non conoscevamo, incarna perfettamente il turbamento e la paura che molto lentamente diventano altro, la nascita di una coscienza e la maturazione di un ideale per necessità. Non c’è mai un sentimento tra quelli che esprime che non sia evidentemente contaminato da altro.

Se John Turturro e Wynona Rider hanno quasi un segmento a sé, fatto di piccole ed ordinarie delusioni, condite da grandi meschinità, il resto del cast vive di assoli eccezionali. Non è una novità che la televisione di qualità esalti la recitazione anche più del cinema di qualità ma qui la gestione dei tempi e del lento maturare dei personaggi di ragionamenti, idee e sensazioni è notevole davvero.

L’obiettivo di Il Complotto Contro l’America non è certo l’avventura, non è il fascino delle conseguenze di questo scenario fantastico (addirittura finirà prima di farci capire come è andata la seconda guerra mondiale), non è insomma The Man In the High Castle. L’obiettivo è la sensazione di oppressione che viene creata in 6 puntate ed esplode nelle ultime due. Raccontare come delle persone possano finire lentamente a temere per se stessi, come si scenda nel baratro di uno stato violento e come tutto questo appartenga profondamente all’America. La fantasia è molto poca, il realismo, i dettagli che riconosciamo e che sappiamo essere accaduti sono tanti. Ci accorgiamo che basta cambiare pochissimo e tutto ciò che conosciamo dell’America si presta perfettamente ad un regime anti-democratico.

La storia, gli eventi e i tumulti sono di fantasia eppure quello raccontato è così evidentemente lo spirito americano da mettere paura.

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