Il colore viola (2023), la recensione

Riuscito negli intermezzi musical, molto simile al film di Spielberg nelle parti narrative, Il colore viola non convince del tutto

Condividi

La nostra recensione di Il colore viola, al cinema dall'8 febbraio

Guardando oggi Il colore viola (film di Spielberg del 1985 e questa nuova versione musical) viene facile fare un parallelo con C'è ancora domani. Storia di violenza ed emancipazione femminile, una protagonista vittima di un marito violento che intraprende un percorso di consapevolezza, spinta da altre figure che invece incarnano un'ideale di donna meno succube e più intraprendente. Del resto questi temi sono oggi ancora più attuali rispetto a quarant'anni fa, e infatti il film di Blitz Bazawule, come quello di Paola Cortellesi, strizza l'occhio alla contemporaneità, aspetto assente nel primo adattamento del romanzo di Alice Walker. Lo svolgimento tra i due è per lunghi tratti lo stesso, con un maggior approfondimento del terzo atto nella nuova pellicola, dove le donne lasciano gli uomini e vanno a vivere in autonomia, e un pantalone diventa simbolo perfetto della loro diversa mentalità. Orizzonte che però non è sufficiente a rendere questo Il colore viola un'opera abbastanza interessante.

Se adattare in forma di musical un testo celebre è oggi pratica diffusa, Il colore viola trova un senso in quest'operazione in quanto la musica è aspetto molto importante per gli afroamericani. Nel film di Spielberg gli intermezzi cantati e ballati erano veicolo per esprimere l'identità dei protagonisti e strumento di riappacificazione finale. La nuova pellicola prende questo assunto e lo espande, e almeno su questo versante si può definire riuscito, con canzoni e coreografie azzeccate. Il merito va anche a Taraji P. Henson, che sa rendere il suo personaggio, la cantante e ballerina Shu, complesso e accattivante. I suoi testi e le sue performance sono audaci e corrosivi, appaiono più in linea coi tempi attuali, come non lo si può dire dell'operazione nel suo complesso. Ne è chiaro esempio la relazione tra la donna e la protagonista Celie, la cui potenziale carica sentimentale ed erotica è stemperata da parentesi musical, risultando così meno esplicita ancora di quanto non lo fosse in Spielberg!

È poi nelle parti narrative che l'opera mostra i suoi punti deboli. Il colore viola a conti fatti racconta una storia molto semplice, una parabola di presa di coscienza, un'ode alla resilienza e alla religione (non è di Dio la colpa del male nel Mondo, ma degli uomini), il calvario di una madre lontana dai figli e di due sorelle separate da giovani. Gli sforzi di rendere più stratificato l'intreccio sono troppi sporadici: viene approfondito il personaggio di Mister, marito della protagonista, di cui vengono spiegate le ragioni del comportamento. Così invece non accade per altri personaggi e soprattutto per Celie, che nella nuova versione non può contare inoltre su un'interprete convincente. Whoopi Goldberg era perfetta nel ritrarre sullo schermo una figura che da infantile e passiva piano piano diventa matura e attiva, con una notevole indole irriverente. Non lo è altrettanto Fantasia Barrino, che preferisce puntare sulla commozione dello spettatore in monologhi cantati pieni di rabbia e risentimento. Così, anche quello che in Spielberg era un indubbio pregio (non calcare sui passaggi più melensi) nel nuovo film viene meno.

Continua a leggere su BadTaste