Il collezionista di carte, la recensione | Venezia 78
Scorsese e Schrader in Il collezionista di carte sono di nuovo insieme per indagare un'ultima volta come possa un uomo vivere in pace con se stesso
Esistono inquadrature che possono definire un film intero, anche quando sono slegate dalla trama. In Il collezionista di carte un panorama aerea su un giardino al buio punteggiato da “sculture” fatte di luci al neon (di fatto punti luminosi su fondo nero che disegnano figure), associato ad uno score quasi chill-out cantato, crea un momento sospeso come non è facile esperire in un film. È la punta spirituale di un film che non ha niente di religioso e tutto di astratto e intimo, trova l’elevazione nell’opposto del trascendente: nel tecnologico.
La storia è quella di un giocatore d’azzardo spinto dal desiderio di espiazione, che in quel giardino forse sta trovando una maniera per perdonare se stesso di quel che ha fatto, in un mondo sintetico che lo accoglie più di altri.
Ci vuole la testa di un animale del cinema come Schrader (e ci vuole un film intero) per partorire un momento simile così alto.
Will Tell, così si fa chiamare, lo incontriamo in carcere, il posto in cui tutti peggiorano ma nel quale invece lui diventa una persona migliore. La regolarità di quella vita lo trasforma in un monaco, la sua cella sembra quella di un convento, pulita ed essenziale. Ripetizione, concentrazione e dedizione. Tutto grida astrazione anche se nessuno lo dice, parliamo di studio del poker e del gioco d’azzardo ma poco importa, è la pratica a trasformarlo in un monaco laico. Lo vediamo imparare a contare le carte in carcere poi è fuori e, stacco brutale, i tavoli dei casinò con la stessa espressione dedicata. Che attacco!
La storia dell’umanità e della sua ricerca di un rapporto con l’accettazione di sé. Questo film non avrà la perfezione di First Reformed (ad oggi sempre più un film incredibile) ma ha i tempi del cinema migliore in assoluto.
Al protagonista, professionista del gioco d’azzardo si contrappongono i campioni sguaiati che urlano. Lui non è lì per le stesse ragioni degli altri, è lì perché solo con il silenzio e la dedizione pensa di potersi purificare. Arriverà un ragazzo, dal profondo del suo passato, a ricordargli le sue azioni, entrerà in scena Willem Dafoe (incredibile, un attore che quando serve c’è sempre, capace di non sbagliare mai, non avere cali di rendimento, con pochi minuti è efficace e cristallino) e poi Tiffany Haddish, tenuta al guinzaglio per diventare quello che non è, la donna ascetica perfetta per questo protagonista se solo potesse perdonare se stesso e concedersi al piacere.
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