La nostra recensione de Il colibrì, film d'apertura della Festa del Cinema di Roma 2022 nelle sale dal 14 ottobre
Marco Carrara, protagonista di
Il Colibrì, ama giocare a poker, affidandosi alla sorte. Così tutta la sua vita è dominata da coincidenze, dal caso, da cui lui si fa trascinare senza mai fare lui un passo o uno scarto. Viene soprannominato il colibrì per la sua precarietà fisica (da piccolo è stato sottoposto a una cura ormonale per crescere in altezza e raggiungere una statura normale) che in verità è anche esistenziale: resta perennemente immobile e, come gli rinfaccia la moglie, è incapace di fare del male. Ma in questo sta il suo dramma: nel fatto che le tragedie di cui è costellata la sua vita sono dovute proprio alla sua attitudine, al fatto che essere di buon cuore non gli basta per evitarle. Nell'interpretarlo, Pierfrancesco Favino continua, dopo
Nostalgia, il suo gran lavoro sul linguaggio, proponendo qui un marcato dialetto toscano. A questo unisce un minimalismo che ben veicola il carattere precario del personaggio, tra frasi spezzate e tentennamenti. Nella sua figura risiede l’intesse principale de
Il colibrì, minato poi da tutto quanto gli sta intorno.
Del romanzo omonimo di Sandro Veronesi Il film di Archibugi riprende, pur cambiando qualche incastro, la scansione temporale giocata sul continuo passaggio tra presente e passato, dall'infanzia alla vecchiaia del protagonista, e la ricerca nel secondo delle ragioni del primo. Il montaggio spesso unisce momenti temporalmente divisi senza soluzioni di continuità, la regia ricorre a dolly e movimenti di macchina, rinsaldando la dimensione onirica e frammentaria di una vita fatta di ricordi. Ma tutte le altre soluzioni narrative sembrano però navigare nella direzione opposta. I frequenti flashback accorrono sovente prima o dopo una sequenza per farci capire le ragioni delle dinamiche in gioco, con una funzione esplicativa che toglie buona parte del fascino al racconto. Il tappeto sonoro onnipresente funge poi da sottolineatura persistente alla narrazione, che così scivola in eccessivo liricismo (quando va bene) o in toni da soap opera (quando va male). Solo nel finale c’è un cambiamento, in una scena di rara (per quanto si è visto prima) intensità emotiva veicolata da un silenzio, da uno sguardo senza parole, dove finalmente a vincere non sono le spiegazioni ma i sentimenti. E quest'approccio si riversa anche nel tratteggio dei personaggi.
Nell'alternare il film tra universo giovanile e adulto, rimane forte la predilezione della regista verso il primo, a cui aveva dedicato il suo film d’esordio,
Mignon è partita. In quest’ultimo la forza risiedeva nel mistero che persisteva intorno alla protagonista, che rimaneva chiusa in sé stessa e imperscrutabile. Nelle varie figure femminili de Il
Colibrì, che per il protagonista rappresentano un gioco di specchi e di ricorrenze, tutto appare invece fin troppo chiaro. Così la sorella del protagonista Irene, morta suicida a ventiquattr’anni, è vittima dell’incomprensione dei genitori, distanti e divisi, così la moglie del suo comportamento superficiale. Nella relazione tra questi due in particolare il film si trasforma in un dramma borghese delle accuse a squarciagola e dei piatti rotti, con una Kasia Smutniak che carica il suo personaggio di emozioni esasperate. Uno zoom sul suo volto è il, ancora una volta, lampante invito a empatizzare con lei, ma è tutto inutile, se poi manca qualsiasi sostanza e ambiguità al suo personaggio (vedi la banale dinamica dell'amante incontrato in palestra). Il momento in cui la figlia di Marco, ormai cresciuta (interpretata da Benedetta Porcaroli) non vuole rivelare a nessuno chi sia il padre del bambino che porta in grembo diventa allora quasi una beffarda (e inconsapevole) autocritica al film stesso.
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