Il club delle babysitter (prima stagione): la recensione
La recensione della prima stagione della serie Il club delle babysitter, disponibile su Netflix
La storia dei dieci episodi sviluppati da Rachel Shukert (GLOW, Supergirl) prende il via quando Kristy (Sophie Grace) ha un'idea "imprenditoriale" e decide di dare vita a un gruppo di coetanee che aiutino i genitori in difficoltà lavorando come babysitter nella piccola citadina di Stoneybrook, in Connecticut. La ragazzina sceglie come vicepresidente Claudia Kishi (Momona Tamada), piena di passione per l'arte e di origini giapponesi-americane, mentre nel ruolo di tesoriera c'è Stacey McGill (Shay Rudolph), trasferitasi dall'Upper West Side di Manhattan e che soffre di diabete. Il club può contare infine sulla presenza della timida Mary Anne Spier (Malia Baker) e della nuova arrivata Dawn Schafer (Xochiti Gomez). Le protagoniste devono così affrontare rivalità professionali, incomprensioni tra loro, malattie in famiglia, genitori a volte assenti, e i problemi grandi e piccoli che contraddistinguono la loro vita.
Lo show riesce nel difficile compito di delineare ognuna delle protagoniste approfondendone la storia nei singoli episodi e intrecciare le loro storie in modo intelligente e non forzato, nonostante gli evidenti intenti educativi che avrebbero potuto rischiare di far scivolare la narrazione in schemi già visti e stereotipati, trovando invece il difficile equilibrio tra virtù e difetti individuali. Ognuna delle ragazzine ha degli evidenti punti di forza che vengono valorizzati, ma non se ne nascondono nemmeno i comportamenti meno apprezzabili, spiegando le motivazioni che portano a compiere errori e a potenziali litigi.
Rispetto alla versione originale il team di sceneggiatori hanno, come prevedibile, voluto offrire maggior spazio alla diversità spaziando dalla scoperta del passato della propria famiglia di origini asiatiche alla lotta per i diritti della comunità transgender, senza dimenticare i pregiudizi nei confronti di chi soffre di patologie circondate da preconcetti e false convinzioni.
Il cast riesce egregiamente a mantenere la naturalezza e il realismo necessario a non rendere stucchevoli i passaggi più emotivi e assicurare la leggerezza utile a far scorrere la visione senza noia o intoppi. Un po' come accaduto con Chiamatemi Anna, l'approccio femminile al racconto contribuisce a proporre una visione della femminilità ben calibrata sul proprio target di riferimento, offrendo delle protagoniste in cui le giovanissime riusciranno a identificarsi senza comunque alienare un pubblico più adulto.
L'esperienza di Alicia Silverstone, Marke Feuerstein e Takayo Fischer contribuisce inoltre a costruire delle puntate ben dirette per dare il giusto spazio a tutti i tasselli del racconto, non dimenticandosi di mostrare anche le difficoltà dei genitori.
Il club delle babysitter ha la capacità di far sorridere e riflettere senza troppi sforzi con il suo ritratto di una generazione che si avvicina, ma senza fretta, verso l'età adulta prendendo consapevolezza della realtà e dei problemi della società contemporanea senza però dare spazio alla negatività, mantenendo quell'ottimismo verso un futuro ancora tutto da decidere particolarmente necessario e auspicabile in un progetto televisivo rivolto ai ragazzi.