Il cigno, la recensione

Le scelte già sono presenti in Il cigno di Rolad Dahl, si sposano alla perfezione con lo stile di Wes Anderson in un corto perfetto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il cigno, il secondo corto di Wes Anderson tratto da un racconto di Roald Dahl, presentato su Netflix dal 28 settembre

In circa 15 minuti Il cigno rende un servizio ammirabile al racconto breve di Roald Dahl da cui è tratto. La modalità espressiva è sempre quella scelta per il quartetto di corti cui appartiene, cioè la lettura creativa del testo, la recitazione di tutto quello che è stato scritto. Stavolta il narratore è uno solo e la messa in scena è molto minima. Non vediamo tutti i personaggi coinvolti, non vediamo tutti quelli che parlano, una persona sola fa tutte le voci e nemmeno tutti i gesti descritti vengono rappresentati. Capiamo presto che questo è frutto del fatto che a essere rievocato è il ricordo di una persona, e a farlo è quella persona stessa. Più che un racconto è una memoria.

Questo meccanismo che rasenta il teatro sperimentale, in cui la messa in scena è apertamente asciugata di alcuni elementi per concentrarsi su altri (anche se questi poi sono enunciati dal narratore), è perfetto per Anderson, per il suo fare astratto e serafico, in cui anche una notazione come “saltò dalla paura” può non avvenire e il personaggio in questione può rimanere come sempre impassibile senza che tutto ciò ammortizzi la tensione o l’emotività del racconto. Anzi, per il meccanismo di chiasmi attraverso i quali funziona di solito la messa in scena di Wes Anderson, la sottrazione di elementi enunciati dalla messa in scena rende ancora più forte la tensione del testo. Qualcosa lo vediamo, qualcosa lo immaginiamo. Si crea un buco che sta a noi riempire.

Si racconta di un bambino maltrattato e bullizzato in maniere potenzialmente mortali. Il protagonista è un remissivo che non sa ribellarsi a quello che gli fanno i bulli, eppure la morale della storia, pronunciata da Dahl stesso (di nuovo interpretato da Ralph Fiennes), sta proprio nella forza che alcune persone possiedono, remissive o no, e che le rende impossibili da conquistare. La forza sta in Rupert Friend, narratore della vicenda, e nella maniera in cui è diretto, nella determinazione nei suoi occhi, nella partecipazione con una tensione incredibile ai momenti più duri. Mentre Wes Anderson applica il suo understatement consueto a tutto quello che lo circonda, e crea anche degli attimi di ironia che nel testo non ci sono, Friend è invece determinatissimo. Ha una concentrazione nello sguardo e una capacità di attirare l’attenzione che consentono a Il cigno di raccontare un incubo con la tensione di una lotta titanica, mentre intorno a lui chi lo mette in scena non lotta per nulla.

Questo è un corto che rasenta la perfezione. Wes Anderson al suo meglio. È probabile che nessun altro regista oggi in attività avrebbe potuto mettere in scena questi contrasti in questa maniera, con questa abilità e questo risultato così sofisticato eppure così focalizzato sulla scrittura di Dahl. Che poi rimane il punto di tutta l’operazione.

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