Il cattivo poeta, la recensione

Ci sono gli ultimi due anni di vita di Gabriele D'Annunzio in Il cattivo poeta, un resoconto corretto che non prende mai trazione

Critico e giornalista cinematografico


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Il cattivo poeta, la recensione

Si lamenta l′impresario che il teatro più non va… Ma non sa rendere vario lo spettacolo che dà…

È con l’attacco di Ma cos’è questa crisi? di Rodolfo De Angelis (brano uscito tre anni prima del 1936 in cui sono ambientati gli eventi), che parte Il cattivo poeta. Sono le prime parole che sentiamo e non sarà l’unico strano, probabilmente involontario eppure pregnante riferimento al cinema italiano. Più avanti proprio Gabriele D’Annunzio dirà: “Agli italiani piacciono solo le cattive rappresentazioni”. Non è un film sul cinema quello di Gianluca Jodice, anzi è molto preciso, documentato e attento a concentrarsi solo su D’Annunzio, la sua storia e la Storia nel senso più ampio. Tuttavia è indubbio che la parabola finale di uno dei più grandi anticonformisti tra gli artisti italiani palleggi bene con questi due momenti così incisivi sul conformismo della produzione culturale.

Tutta la storia di Il cattivo poeta è vista tramite Giovanni Comini, vero federale di Brescia a cui la reggenza fascista fornisce l’incarico di tenere d’occhio D’Annunzio nella sua residenza del Vittoriale e riportargli tutto quel che accade. Come in Apocalypse Now! il film attacca con un soldato cui è affidata una missione. Gli viene anche fatto ascoltare un audio di D’Annunzio, come a Willard vengono mostrate le foto di Kurtz. Dovrà introdursi in quello che è diventato un piccolo regno autonomo sorto intorno ad una figura importante, qualcuno che prima era parte del sistema e ora diventato un cane sciolto, troppo potente per non dare fastidio. Il compito non sarà terminarlo come ma marginalizzarlo politicamente così da controllarlo. Che per D’Annunzio è come morire.

Il resto del racconto è classico e quasi risaputo: un giovane idealista incontra un anziano mentore, dalla frequentazione il giovane vedrà incrinarsi le sue convinzioni. Lo sfondo è il biennio 1936-38, momento in cui il fascismo si avvicina alla Germania di Hitler e contemporaneamente il regime diventa ancora più aspro e duro verso gli oppositori o chiunque sia in odor di opposizione.
Il cattivo poeta è un film estremamente corretto (così tanto da mettere in bocca a Sergio Castellitto solo parole realmente pronunciate o scritte da D’Annunzio) che tuttavia non riesce mai a guadagnare la trazione che servirebbe, come se faticasse a cogliere gli stessi semi che lascia per strada, troppo concentrato su una storia giusta, raccontata per bene senza sbafature.

È comprensibile infatti che Giovanni Comini sia un personaggio usato per raccontare in realtà D’Annunzio, eppure più il film avanza più si ha l’impressione che più della storia del vate del fascismo che ormai aveva ripudiato quell’ideologia e anzi si batteva a modo suo per evitare un’alleanza con la Germania, è il conformismo di Comini ad essere la parte misteriosa e attraente del film. Il cattivo poeta sceglie di non seguire quel binario ma la reticenza a cambiare, la fatica della disobbedienza e l’irredimibile fiducia nel regime del federale, nonostante quel che il film fa accadere a persone a lui vicinissime e lo shock che ci fa capire provi nel vedere quel che vede, sono la parte più interessante di una storia che invece affonda più volentieri nel didattico.

Tutti i personaggi che ruotano intorno ai due principali parlano di D’Annunzio, raccontano D’Annunzio, descrivono D’Annunzio. È una corte animata dal desiderio di parlarci di un personaggio che è interpretato con l’abituale correttezza mimetica che ci si può aspettare da Sergio Castellitto. In un film che parla per bene di D’Annunzio purtroppo c’è poco altro.

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