Il capofamiglia, la recensione
Omar El Zohairy dà prova di una notevole padronanza del mezzo, ovvero del linguaggio visivo, creando un mondo inedito e straordinario attraverso una visione.
La recensione di Il capofamiglia, al cinema dal 16 marzo
La cornice è quella di una baraccopoli fatiscente in cui moglie (Demyana Nassar), marito e i tre figli vivono una quotidianità di stenti. Le pareti sono scrostate, i materassi macchiati, e ogni volta che si apre la finestra è una gara a cercare di non fare entrare il denso fumo bianco che esce da fuori. Niente di ciò che si vede in Il capofamiglia è specifico, localizzato, personalizzato (non sappiamo che luogo sia, né i nomi dei personaggi) eppure è tutto perfettamente a fuoco, credibile, così denso di realismo da diventare straniante.
Con una monoespressività rassegnata, apatica, e senza dire praticamente una parola per tutto il film, la madre comincia allora a cercare di rintracciare il mago e contemporaneamente si adopera in qualsiasi modo per far ritornare il marito umano, in un accidentato percorso di possibile emancipazione. Tra rituali oracolari delle più varie fattezze, Omar El Zohairy ci parla di un mondo in cui ogni cosa visibile è credibile e reale. La freddezza della regia è data dalla staticità di tutte le inquadrature: come se adottassimo il punto di vista onniscente di una finzione teatrale, scena dopo scena vediamo scorrere la trama di questo teatrino grottesco dove ogni minimo gesto sembra qualcosa di enorme.
In questo senso Omar El Zohairy dà prova di una notevole padronanza del mezzo, ovvero del linguaggio visivo, creando un mondo inedito e straordinario attraverso una visione. La qualità di un regista estremamente autoriale, che scivola leggermente solo nel finale, quando è invece la trama in sé a confondere forse un po’ troppo quei due piani di realtà che fino a quel momento El Zohairy aveva gestito egregiamente.
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